CULTURA

Il fragore delle armi risuona nel linguaggio

«La parola e la spada» di Francesca Piazza (Il Mulino)
TIZIANA MIGLIOREITALIA

Qual è il rapporto tra violenza fisica e parola? Se è vero che parlare è un antidoto al venire alle mani e aiuta a risolvere i conflitti, perché diciamo che «le parole sono pietre»? La parola e la spada. Violenza e linguaggio attraverso l’Iliade di Francesca Piazza (Il Mulino, pp. 232, euro 22) è un libro utile quanto attuale sul ruolo del linguaggio nella realizzazione della brutalità umana.
CONTESTANDO L’IDEA che le parole sostituiscano la violenza, l’autrice studia i nessi fra parlare e combattere, antichi quanto l’uomo e tutt’altro che lineari. Le molte espressioni della comunicazione che già nell’agorà greca, luogo del raduno e insieme dell’agone politico, richiamano lo scontro fisico – l’interlocutore è un avversario da «convincere», che può essere battuto o messo al tappeto; una tesi si attacca o si difende; l’efficacia di un discorso dipende da tattiche e strategie… – non sono metafore.
FANNO CAPIRE che il linguaggio, più che placare gli istinti, li riorganizza aprendo uno spazio indefinito di possibilità: insulti, promesse, minacce, sospetti, rancori. Linguaggio non come emissione di parole, ma come pratica complessa di enunciazione, corporea e visiva, in cui contano i toni, i gesti, i ritmi e la postura usati per proferirle.
«Linguaggio è guerra» (Fabio Mauri) anche in stato di pace. Pensiamo a una partita di tennis, dove la sfida a suon di sguardi, sbuffi e movenze incide sul duello e sul suo esito. Il vanto di fronte al pubblico non viene dopo lo scontro, ma è il colpo finale inferto all’avversario. Guerra, agonismo giudiziario e agonismo atletico si traducono reciprocamente.
L’ILIADE, per Francesca Piazza, è il testo paradigmatico di questi intrecci fra forza fisica e forza verbale. Sullo scudo di Achille (libro XVIII, vv. 478-608), nelle «due belle città di creature mortali», si vedono una scena di nozze e un processo, un assedio e la battaglia che ne segue.
L’ira distruttiva del Pelide scatena una guerra che è soprattutto di parole: Achille denigra Agamennone e gli prefigura il lutto dei parenti e lo strazio del suo cadavere; Agamennone insulta i soldati per spronarli a combattere; Ettore maltratta il fratello per indurlo ad affrontare Menelao; Odisseo ad alta voce e a botte zittisce Tersite; mentre di Aiace bastano il ghigno e il fragore delle armi a incutere terrore.
L’eroe deve saper brandire le parole con la destrezza con cui brandisce una spada, pena l’accusa di essere «solo chiacchiere e distintivo». Piazza si spiega allora, retrospettivamente, il metodo del sergente maggiore Hartman in Full Metal Jacket (1987): addestrare le reclute a «diventare un’arma». Agli insulti del comandante si risponde combattendo.
Nell’Iliade il duello cerimoniale, che rappresenta una tregua, le gare di carri che aprono i giochi funebri e lo stesso duello in battaglia, cruento e letale, sono altamente regolati. Prevedono la contrattazione, con giuramenti e maledizioni passibili di diventare spergiuri. Si basano sulla misurazione sia del valore effettivo, delle competenze in campo, sia del valore di rango, genealogico, per cui i duellanti narrano le loro gesta e quelle della loro famiglia. E necessitano della presenza di un terzo – testimone, garante o giudice – che riconosca la vittoria conseguita.
NELLA GUERRA, che dunque ha una struttura dialogica, rientrano anche il silenzio, di Diomede rispetto ad Agamennone per esempio, e la supplica, ultima chance del più debole che, ostentando inferiorità, può trasformarsi da nemico in sottomesso e bilanciare la perdita di posizione. L’ultima parola spetta però all’interlocutore. Priamo riesce ad avere indietro il cadavere di Ettore non per la felicità della sua supplica, ma perché Achille decide così, dopo aver negato a Ettore lo statuto di umano e trasformato il duello in una lotta interspecifica, del predatore contro la preda.
«Se questo è un uomo», «questo non è un uomo», solo l’animale che parla può dirlo, negando l’identità al proprio simile. Tutta interna al libro è una riflessione sulle peculiarità del linguaggio. Il fatto di essere all’origine del mondo e condizione della sua creazione – «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Genesi, 1, 1-3) – rende il linguaggio il più potente dei sistemi espressivi, che, come crea, così distrugge o differisce nel tempo l’esercizio della forza, con un potenziale erosivo anche maggiore. Nell’iconologia Peito, la dea greca della persuasione, scorta Afrodite, dea dell’amore, con la spada in mano. Amor vincit omnia è casomai un arduo punto di arrivo.

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