VISIONI

Edgar Reitz, l’arte la nostalgia e la tensione verso l’irraggiungibile

Intervista al regista della saga di «Heimat». Il secondocapitolo fu girato durante la caduta del muro di Berlino
SILVIA NUGARAgermania/italia/milano

Scrittore, drammaturgo, regista, Edgar Reitz è una delle figure più rilevanti del panorama culturale di lingua tedesca. Nato in Hunsrück nel 1932, tra i firmatari del Manifesto di Oberhausen che nel 1962 diede vita al Giovane Cinema Tedesco, dal 1979 ha concepito Heimat, opera monumentale realizzata tra il 1984 e il 2004 in tre cicli di 30 film e più di 54 ore, a cui si sono aggiunti i Fragmente (2006) e il prequel L’altra Heimat - Cronaca di un sogno (2013). In quest’epopea, le vicende della famiglia Simon abbracciano più di un secolo di storia della Germania, e non solo, dalla metà dell’Ottocento agli anni Duemila. Il regista è stato invitato a Milano dalla Fondazione Culturale San Fedele, per cui Enrico Maisto ha curato la riproposizione di Heimat 2 nell’ambito di XXL. Storie infinite, rassegna dedicata alle opere fuori dai formati tradizionali. Reitz ha incontrato il pubblico sia il 3 novembre per l’inizio del ciclo sia in questi giorni per la chiusura (il 15 dicembre dalle 15 all’Auditorium di via Hoepli 3B si vedranno gli ultimi tre episodi). Elegante e affabile, risponde volentieri a chi non smette di interrogarlo sulla sua opera.
«Heimat 2» è stato proiettato a Milano in coincidenza del trentennale della caduta del Muro. Lei come visse quell’evento?
Nel settembre 1989 avevo fatto domanda al Ministero degli interni della DDR per filmare la scena di Heimat 2 in cui Stefan si reca a Berlino e deve percorrere la Transitautobahn, l’autostrada che attraversava la DDR. Non ci risposero, ma andammo lo stesso a Berlino e lì ci arrivò la notizia della caduta del muro: così ho vissuto la grande emozione della notte tra il 9 e il 10 novembre mentre mi trovavo sul Kurfürstendamm, vicino alla frontiera. Due settimane dopo il mondo era già cambiato e potemmo andare tranquillamente a filmare sulla Transit.
L’insieme della sua opera, fin da «Mahlzeiten» (1967), esplora il rapporto tra libertà e attaccamento affettivo: per lei l’arte nasce sempre da una separazione dal proprio mondo d’origine?
Per me l’arte è legata al ritorno all’infanzia, quando ogni esperienza ti segna lasciandoti un sentimento di Sehnsucht. Si vuole tornare all’infanzia ma questo anelito è un’utopia. C’è però una via simbolica, quella dell’arte per riprodurre la vita all’interno di una finzione. Il mio problema è che con Heimat ho cercato di tornare al mio passato ma in questo modo ho trasformato la mia vita in un’opera di finzione. Il risultato è che quando mi guardo indietro, la finzione si sovrappone ai ricordi veri. Il film è rimasto e i ricordi se ne sono andati.
Sehnsucht è la nostalgia degli esiliati ma anche di chi desidera l’altrove come nel suo ultimo «Die Andere Heimat. Chronik einer Sehnsucht» che in italiano è stato tradotto «cronaca di un sogno» e in inglese «cronaca di una visione». Che rapporto c’è tra nostalgia, sogno e visione?
Per la prima a Venezia, ho partecipato alla traduzione di quel sottotitolo perché volevo si capisse questo concetto molto radicato nella cultura romantica tedesca, che non ha una traduzione univoca. Nella scelta di «sogno» per l’italiano abbiamo riportato uno dei suoi aspetti, quello di bramosia, di tensione verso l’irraggiungibile. Anche la versione inglese, con vision, traduce solo un aspetto del Sehnsucht, quello di uno sguardo rivolto in due direzioni: l’orizzonte, ciò che ancora non è, e il passato, ciò per cui si prova nostalgia.
Suo padre era un orologiaio e nel suo lavoro il tempo è fondamentale. C’è una nota scena di «Heimat 2» in cui gli orologi di una villa vengono fermati per non disturbare un concerto con il loro ticchettio. Tra arte e tempo c’è un rapporto conflittuale?
È un’esperienza che ho sentito sin da quand’ero bambino: il tempo fa terminare tutto, non siamo mai nella vita presente ma siamo sempre alla fine, ogni ora, minuto, secondo che stiamo vivendo sono già passati. Il tempo è ciò che ci porta via la vita che ci resta da vivere.
Si è mai sentito un po’ intrappolato in «Heimat»?
Appena ho iniziato quel lavoro mi sono reso conto che avrei potuto andare avanti all’infinito perché avevo tantissime storie da raccontare. Ho capito che questo era il mio talento. Non bisogna agire contro il proprio talento perché porta sfortuna.
Oggi la serialità è diventata una delle forme prevalenti dell’audiovisivo, «Heimat» può essere considerato un precursore?
Heimat non è una serie ma un epos, un grande racconto che si sviluppa in modo paragonabile a un romanzo. Nella maggior parte delle serie ogni puntata ha una sua autonomia e questo non è il caso di Heimat. Non bisogna farsi ingannare dalla struttura a capitoli, perché questi da soli non reggono. Amo dunque definire Heimat un filmische roman, un romanzo film.
Oggi l’Europa è attraversata da muri e paure: sono ancora possibili nuove narrazioni epiche?
Non ci può essere arte e quindi epos senza speranza. L’arte vive di speranza, anche in un mondo di paura.

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