VISIONI

Nel paesaggio di «Pinocchio» alla ricerca del tempo presente

Il burattino che sogna di essere bambino tra invenzione, arte, resistenza
CRISTINA PICCINOITALIA

Cosa racconta Pinocchio, quel «pezzo di legno che piangeva e rideva» protagonista della fiaba che Carlo Collodi, pseudonimo per Carlo Lorenzini, scrisse nel 1881, divenuto una figura universale? Possiamo vedere le turbolente vicissitudini del ragazzino col naso e il cappello a punta come un romanzo di formazione che segue, appunto, un bimbo alle prese con le giravolte dell’esistenza su quel crinale che impone: adattarsi alle regole sociali dominanti o soccombere. Per essere buoni si deve obbedire, andare a scuola, prendere bei voti, non dispiacere ai genitori, non fare alzate di capo, tutto ciò che invece Pinocchio trasgredisce a ogni passo, scappando lontano appena il suo babbo, Geppetto, gli dona piedi e gambe. È anche vero che quel padre appare a sua volta inadeguato, pieno di esitazioni e in cerca di una «cuccia» esistenziale si ritrova invece ormai vecchio e senza un soldo questo figlietto che impara a dire subito «babbo» - cos’altro potrebbe dire visto che la mamma non c’è? - bello ai suoi occhi ma pur sempre di legno. E vista la sua natura il ragazzino non può che avere la testa dura, per parafrasare il toscano - la lingua che parla - è pure un po’ grullo nonostante il cuore buono. Così si mette sempre nella condizione «sbagliata», si fa imbrogliare, malmenare, derubare, incantare dal paese dei balocchi e intanto delude chi gli vuole bene: il padre, l’amica dai capelli turchini, quella fatina che malgrado tutto lo protegge e lo ama anche quando le bugie che sciorina una dietro l’altra gli fanno crescere il proverbiale naso.
EPPURE. In quell’Italia Pinocchio è soprattutto un povero, l’eroe della fame, come suo padre che per comprargli l’abecedario deve vendere in pieno inverno giacca e panciotto; poveri sono i suoi compagni, destinati all’analfabetismo, per cui la scuola sono botte sulle mani e in ginocchio sui ceci - tanto non andranno mai da nessuna parte condannati al lavoro (e alla miseria) dei genitori da cui cercano di scappare inseguendo un tutto e subito più facile - chissà se oggi sarebbero in qualche «paranza» o «Gomorra», figli di quel sottoproletariato annichilito, sedotto dal luccichio delle monete che crescono nei campi - quasi un prototipo del gratta&vinci. E il paese dei balocchi è un’altra condanna, per essersi divertiti un giorno - bella la scena che cita Vigo di Zéro de conduit - diventano asini, ancora una metafora per chi lavora come uno schiavo. Quale è allora la «formazione»? E come ribellarsi?
È avventurandosi su queste - e molte altre piste - che Matteo Garrone cerca il suo Pinocchio (in sala il 19), una sfida importante per un regista e non solo per il radicamento del personaggio nell’immaginario e nel linguaggio comuni; la scommessa più importante - almeno vedendo il film - è infatti quella di cercarne l’attualità e, al tempo stesso, una dimensione in cui sperimentare la forza visionaria del cinema.
CI SONO molti elementi che si ritrovano nelle avventure del burattino, esoterismo, magia, iniziazione, alchimia, Ovidio e i miti popolari, quanto lo porta verso quella dimensione fantasy già esplorata da Garrone nel molto bello Racconto dei racconti. E c’è una riflessione sul «maschile» e il «femminile» - che era anche questa molto presente nella sua rilettura delle favole di Basile, lo Shakespeare partenopeo come lo definì Calvino. L’eroe è un ragazzino che nasce da un uomo, fabbricato da un pezzo di legno magico, ma non è un «vero» bambino, ci vorrà la fata per renderlo tale, il femminile - è Marina Vacht da adulta che viene mostrata quasi come una madonna nella scena finale, una delle più belle del film - che è sorella, amica (da bimba Alida Baldari Calabria) mentre padre e figlio «rinascono» entrambi, e a ruoli inversi dal ventre del Pescecane.
Garrone che ha riunito nel cast molti attori - Massimiliano Gallo, Rocco Papaleo, Enzo Vetrani, Paolo Graziosi, Gigi Proietti - e ha voluto per il ruolo di Geppetto Roberto Benigni - Pinocchio è Federico Ielapi - autore a sua volta di un Pinocchio nel quale incarnava lui stesso il burattino, ricostruisce l’iconografia della fiaba fedelmente, e con grande con seduzione visiva ne traduce la variazioni antropomorfiche - la lumaca governante della fatina, il Gatto e la Volpe, quest’ultimo Massimo Ceccherini autore col regista della sceneggiatura - e il paesaggio italiano di accenti diversi in pennellate di realtà che guardano ai Macchiaioli (la fotografia è di Nokolaj Bruel). Mescola stupori e paure degli occhi più infantili a una consapevolezza - campo e controcampo o diritto e rovescio? - mai programmatica, che non impone letture ma lascia liberi gli sguardi.
LA SUA CIFRA è quella del fantastico, realtà potenziata non riprodotta, insieme a lui varchiamo il dispositivo della fiaba per dimenticarci la sua natura, che è sempre un po’ consolatoria, e scoprire nei campi, nei paesini, nelle fiere, nei circhi, sui banchi di scuola, in tribunale il nostro presente, quasi che la «formazione» del personaggio sia quella dell’Italia, sospesa tra il passato e un l’oggi che ne deriva in una vertigine che ripete se stessa. Non è moralismo ma ricerca di una resistenza, lo stesso gesto che compie il ragazzino, e quel suo diventare «saggio» ci appare piuttosto come una presa di consapevolezza, l’apprendistato a pensare con la propria testa, a progettare una ribellione contro chi lo vuole calpestare. È il tuffo nel corpo a corpo col mondo, tra i bivi dell’esperienza - un po’ come nella canzone di Petra Magone finale, Passo a passo - gli errori, le cadute, gli imprevisti: una continua trasformazione, quella dell’arte capace di reinventare la vita.

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