Non si può dire che sia stato un fulmine a ciel sereno. Da quando ormai quasi un anno fa Autostrade per l’Italia aveva deciso di rivolgersi al Tar contro il decreto Genova sostenendo che l’azienda era stata «usata come un bancomat», molti tra gli addetti ai lavori e qualcuno in meno tra i politici avevano avvertito sulla possibilità che quel ricorso potesse essere preso più che sul serio. La certezza è arrivata ieri mattina. Il Tar della Liguria ha deciso di trasmettere alla Corte Costituzionale il quesito di Aspi (e della collegata Pavimental) sulla legge che di fatto l’ha estromessa dalla demolizione e ricostruzione di ponte Morandi. Nell’attesa ha sospeso il giudizio sul ricorso di Aspi sull’annullamento del decreto stesso.
I giudici del tribunale regionale hanno rilevato profili di incostituzionalità. Aspi aveva rinunciato a chiedere una sospensiva e quindi i lavori per la ricostruzione del nuovo viadotto e tutte le altre partite legate a risarcimenti e finanziamenti non saranno bloccati, ma la decisione è di peso.
I giudici amministrativi hanno ritenuto «rilevanti» e «non manifestamente infondate» alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate dalle parti ricorrenti sul decreto Genova, convertito dalla legge 130/2018, che hanno escluso Autostrade, quale concessionaria della tratta autostradale, dalle attività di ricostruzione. Il decreto aveva affidato al commissario straordinario la realizzazione dei lavori ma con spese a carico del concessionario. Secondo il Tar «emerge un diritto» in capo ad Autostrade al proprio «corretto adempimento» di quanto previsto dalla concessione, oltre all’obbligo «di mantenimento della funzionalità delle infrastrutture concesse attraverso la manutenzione e la riparazione tempestiva delle stesse» di tutta l’infrastruttura e non solo del viadotto sul Polcevera.
Ancora, si legge nella sentenza che rinvia la questione agli ermellini, il legislatore è intervenuto nell’ambito della concessione di cui Aspi è ancora parte, «incidendo autoritativamente sull’obbligo/diritto di quest’ultima di porre in essere qualunque attività relativa alla demolizione e ricostruzione», imponendo anche prestazioni patrimoniali.
Ma il passaggio forse più critico è quello in cui si sottolinea come queste decisioni non siano state ben motivate da chi ha scritto la legge. «Se, in via astratta, tale soluzione estrema non possa ritenersi inammissibile, proprio in considerazione della estesa e incisiva portata degli effetti, la stessa deve essere sostenuta da una giustificazione non irragionevole o illogica e puntualmente motivata». Nel decreto non è detto esplicitamente perché «pur a fronte della evidente urgenza e gravità della situazione, una celere e adeguata demolizione e ricostruzione non avrebbe potuto essere effettuata da Aspi» anche sotto «la vigilanza di terzi o comunque in collaborazione con il commissario straordinario».
Infine, i criteri con cui sono stati stabiliti i costi a carico di Aspi sono «indeterminati e non pertinenti», scrivono i giudici del Tar ligure, mettendo in dubbio anche la partita degli indennizzi a cittadini e imprese espropriati. «Non è dato comprendere con precisione sulla scorta di quali parametri economici sono state determinate le indennità per metro quadro» e «sono indeterminati e non pertinenti con lo specifico valore dell'immobile i parametri relativi alle spese per gli acquisiti degli arredi e di ogni altra spesa accessoria per la ricollocazione abitativa».