VISIONI

Mariss Jansons, se il tocco sublime arriva sul podio

IL DIRETTORE MORTO A 76 ANNI
ANDREA PENNA russia/san pietroburgo

Chi lo ha ascoltato dal vivo anche una volta soltanto difficilmente può dimenticarlo, ma Mariss Jansons non era il genere di musicista il cui volto risulta familiare al di fuori della cerchia degli appassionati, per i quali invece la notizia della sua morte, sabato scorso a San Pietroburgo, ha l’effetto di un vero trauma. La vicenda umana e artistica di Jansons, nato a Riga il 14 gennaio1943 incrocia a più riprese la grande storia, a partire dalla nascita clandestina nel nascondiglio dove la madre Iralda, cantante lirica di origine ebraica, era scampata alla decimazione della sua famiglia nel ghetto di Riga. Jansons ha spesso raccontato di un’infanzia felice, fra camerini di teatri e strumenti musicali, accanto alla madre e al padre Arvid, noto direttore d’orchestra, assistente di Mravinskij a Leningrado. Dopo gli studi viennesi con Swarowsky e Karajan e il piazzamento al concorso Karajan nel 1971, quest’ultimo lo invitò come assistente a Berlino, ma le autorità della Lettonia sovietica gli vietarono l’espatrio: Jansons approdò a sua volta alla Filarmonica di Leningrado accanto a Mravinskij e sarà il primo negli anni ’80 a portare l’orchestra in tournée oltrecortina.
LA FAMA internazionale arriva quando nel 1979 è nominato alla guida della Filarmonica di Oslo, che in pochi anni Jansons trasforma in una compagine di prim’ordine: le sue incisioni di Dvorák, Stravinskij, Bartók, Prokof’ev, Šostakóvic restano un riferimento insuperato anche da quelle successive, testimoniando il dominio tecnico soggiogante, la naturale eleganza coniugata alla ricerca minuziosa della qualità del suono orchestrale, ma anche la passione viva e spontanea che animava le sue esecuzioni. Garbo e riservatezza cedevano il posto a un’inesauribile energia nel rapporto con i musicisti delle orchestre, lasciando in loro un segno indelebile; caratteri che rendevano Janson poco incline alle fanfare pubblicitarie dedite a incensare talvolta subitanei miti di cartapesta. Nel frattempo la leggenda di Jansons cresceva, prima con il passaggio ai Filarmonici di Londra (1992) e all’orchestra di Pittsburg (1994), la presenza stabile a Berlino, a Salisburgo e soprattutto a Vienna ( concerti di capodanno inclusi) e poi Lucerna; fondamentali i legami con il Concergebouw di Amsterdam (dal 2004 al 2015) e l’Orchestra della Radio Bavarese (dal 2003), le compagini con cui ha segnato la storia dell’interpretazione recente di Beethoven, Berlioz, Brahms, Dvorak, un Caikovskij irripetibile e poi il novecento, Mahler, Strauss, Šostakóvic.
AL VOLGERE del secolo la sua figura primeggiava nella considerazione di quanti ricercano il vertice puro e assoluto dell’arte direttoriale: la sua era una dedizione totale, che chiedeva un’intensità e un’energia mai scemate, neppure dopo il recupero a seguito dell’infarto nel 1996, durante una Bohéme a Oslo. Certo, era più cauto e andava selezionato le collaborazioni, per questo le presenze italiane restano limitate più che altro alla Scala, a Santa Cecilia e prima ancora alle Orchestre Rai. Negli ultimi anni si era accentuata la fragilità di salute, ma era comunque tornato anche all’opera: restano indimenticabili le recite di Evgenji Onegin e Lady Macbeth di Mcensk a Amsterdam e la recente Dama di Picche a Salisburgo nel 2018.

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