VISIONI

Madri e figlie, passaggio di testimone -

Al festival «Cinema e donne» di Firenze film e incontri, fra militanza e impegno politico
SILVANA SILVESTRIITALIA/FIRENZE

Le relazioni costruite in quarantun anni di festival di «Cinema e donne» di Firenze di Maresa d’Arcangelo e Paola Paoli fanno di questi incontri qualcosa di diverso da una qualunque manifestazione del genere, luogo di approfondimento e filo conduttore di una militanza che non si è dispersa nel corso degli anni, anche quando la moda aveva cancellato ogni istanza femminista. Quest’anno (20 -24 novembre) si sono in qualche modo raccolti dei frutti sostanziosi, al limite della giornata contro la violenza, si è rinsaldato il collegamento con «Le Madri delle storie» secondo il titolo dato al festival di quest’anno: le madri e le figlie si sono incontrate in modo sorprendente per proporre un passaggio di testimone in qualche caso interrotto, il premio alla carriera a Patrizia Pistagnesi a premiare pionierismo e impegno costante, scrittura e ideazione.
IL NOME fondativo di Agnès Varda ricordato con alcuni suoi film degli anni ’70 come Réponse des femmes (’75) a evidenziare quanto siamo tornate oggi al punto di partenza o Black Panthers (’68) girato a Oakland durante le manifestazioni per la liberazione di Huey Newton, sintesi di presa di coscienza e militanza, si collega a un altro punto di riferimento, quello di Chantal Akerman, ovvero da un lato lo sberleffo per appropriarsi dello spazio cinema in Varda e la scoperta per tutte di un nuovo significato di tempo da parte del genio dell’artista belga di origini polacche, con tutte le implicazioni contenute nel rapporto con la madre, messo in evidenza dal libro appena uscito di Ilaria Gatti (Chantal Akerman, Fefè edizioni). A queste riflessioni si aggiunge il turbine delle Nemesiache, riscoperte in questi anni perfino dalle università negli Stati uniti come dalle nostre con tesi di laurea a loro dedicate, raccontate in unvolume di Silvana Campese che del gruppo fa parte (Le Nemesiache di Medea, l’inedito edizioni) per riportare all’attualità il nome di Lina Mangiacapre con una raccolta completa di materiali a raccontare la lunga stagione di azione politica come creatività artistica («l’arte è politica») e di intuizioni che sarebbero esplose solo negli anni successivi, oltrepassando la barriera invalicabile del ghetto del professionismo.
ALTRO RIFERIMENTO è dato dal film di Nadia Pizzuti Lina Mangiacapre artista del femminismo dove si racconta quella particolare stagione in cui «le donne per la prima volta sono uscite, si sono guardate e hanno scoperto delle cose» con l’occupazione dei luoghi archeologici napoletani, a cavalcare i miti precedenti al patriarcato, film denso di affetto e di ironia, sintesi dei lavori realizzati da Lina, degli interventi pubblici, delle irruzioni nei luoghi della politica ufficiale, delle feste, dei festival della poesia e rassegne di cinema, delle azioni nel manicomio del Frullone.
IL FESTIVAL di «Cinema e donne» non fatto solo di riflessioni ma soprattutto di film, si collega alle nuove generazioni con opere che ci mostrano l’importanza del tema della memoria, tanto da farci scoprire una cancellazione degli anni del fascismo da ricostruire nella memoria dei giovani pezzo dopo pezzo come in Clara e le vite immaginarie di Giulia Casagrande, attraverso testimonianze e fotografie misteriose non solo per la regista, ma probabilmente anche per tutta una generazione di fronte al silenzio delle famiglie su cosa è successo in quel periodo. Così Una donna poco più che un nome di Ornella Grassi ricostruisce con pochissimi elementi visivi a disposizione, uno dei tanti «numeri» che compongono le vittime delle leggi razziali in Italia, che ora ha un nome, quello della scienziata Enrica Calabresi, un vita cancellata non solo dall’insegnamento universitario, ma anche dai documenti ufficiali perché non comparisse il nome di una professoressa ebrea nella facoltà di Firenze, vittima che non si fece annientare ad Auschwitz ma pianificò il suo suicidio.
È UNO DEI TANTI nomi occultati da far emergere come quelli proposti dal portale in costruzione «Intellettuali in fuga dall’Italia fascista», realizzato dalla storica Patrizia Guarnieri, un mondo invisibile di studenti e professionisti che decisero di andare via dal paese anche prima delle leggi razziali, un esodo che ricorda molto quello dei nostri giovani senza futuro, indicazione per una battaglia culturale da intraprendere. L’incontro con le cineaste che provengono dai paesi nordici è sempre interessante perché esibiscono quelle cifre sorprendenti della parità di genere, se non del 50/50 come in Svezia, almeno del 60/40, ma emergono anche per loro difficoltà e problemi e perfino nell’Islanda avanzata, dove ci possono volere dieci anni per realizzare un film, come per Asthildur Kjartansdottir, autrice di The Deposit, emblematico dell’atteggiamento europeo nei confronti dell’immigrazione.
O COME per la finlandese Mia Halme (Every Other Couple testimonianza da un paese dove un matrimonio su due finisce in un divorzio e dove, a dispetto delle statistiche non è facile lavorare per le donne. Il suo suggerimento è la richiesta che ogni ostacolo al sostegno alle registe sia segnalato come «molestia». Ma nel Mediterraneo, a dispetto delle nostre ridicole percentuali in fatto di parità si continuano a fare bellissimi film, come Marisol di Camilla Iannetti (saggio di diploma del Centro sperimentale di Palermo) oppure Tous les reves du monde della portoghese Laurence Ferreira Barbosa, due ritratti di adolescenti tanto scintillanti da non temere per le donne di domani.

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