CULTURA

Una liberazione abitata e desiderante

Anticipiamo la prefazione a «Grande come una città», edito da Alegre
ALESSANDRO PORTELLIITALIA/ROMA

Non ci abito più da molti anni ma il Terzo Municipio di Roma – o almeno, alcuni suoi pezzi: Montesacro, Tufello, Val Melaina – sono la mia Roma. Un po’ perché mi ci sono formato: con l’iniziazione e l’apprendistato alla politica nel Collettivo edili del manifesto (una longeva e autonoma esperienza della nuova sinistra, ancora vivo e attivo come Circolo culturale Montesacro); con il Comitato agitazione borgate e le occupazioni delle case di via Capraia e di via della Serpentara (che ho avuto l’emozione di raccontare al liceo Aristofane, in un’iniziativa di «Grande come una città»); con gli incontri con la memoria antifascista di Val Melaina (Renzo Piasco e Antonio Pistonesi uccisi alle Fosse Ardeatine; Riziero Fantini, amico di Sacco e Vanzetti, fucilato a Forte Bravetta; le meravigliose signore della famiglia Menichetti con una lunga storia di resistenza che poi è diventata uno spettacolo del Circolo Gianni Bosio e che continua nella militanza e nella ricerca delle generazioni successive). E un po’ perché l’ho sempre vissuta come una realtà intrinsecamente urbana.
L’IMMAGINE che me ne porto dietro, e che ritrovo ogni volta che ci torno, è quella di uno spazio densamente abitato e densamente vissuto, distinto e relativamente autodefinito, a suo modo davvero una città a parte connessa al resto di Roma da due ponti sull’Aniene (anzi, per tanti dei miei primi anni lì, da un ponte solo). Soprattutto – ma forse questa è una mia proiezione o il riflesso delle mie frequentazioni di allora – una composizione sociale senza grandi sbalzi fra le classi lavoratrici di Tufello e Val Melaina e il ceto medio (molto medio, e in parte «riflessivo») di Montesacro.
Poco proletariato classico, molto terziario. Pochi luoghi di cultura, non poca gente colta. Mi sembrava anche relativamente giovane, tante scuole e tanti studenti. Molte donne, almeno nell’immagine mentale del ricordo. Praticamente non esisteva ancora il Nuovo Salario, Bufalotta o Vigne Nuove erano in embrione, Fidene sembrava lontanissima da piazzale Adriatico, c’era ancora Prato Rotondo con le baracche e don Gerardo Lutte... Insomma, davvero, una città, non solo come agglomerato ma anche come identità. La cosa che mancava, in fondo, per trasformare definitivamente questi quartieri in «città» era una focalizzazione interna, un riferimento centrale sul territorio.
Montesacro e dintorni erano pieni di possibilità ma in gran parte si riversavano fuori, verso il resto di Roma, attraversando il ponte e maledicendo l’ingorgo alla Batteria Nomentana. «Grande come una città» è appunto questo: una proposta di rivolgere al territorio stesso le risorse di senso civico, di competenza, di passione che sul territorio si trovano, e da lì ripartire per parlare a tutti. La dimensione urbana del progetto viene fuori anche dalla pluralità ed eterogeneità degli interventi di questo lavoro collettivo. Sono diversi anche nella forma, dalla testimonianza personale al saggio; e sono diversi anche perché non si tratta di aderire a un progetto ma di dargli forma partendo, ognuno, da sé, dai propri desideri e passioni e dalle proprie competenze, creando un insieme che non comprime ma valorizza le singolarità. Io, per esempio, ho incontrato Grande come una città in contesti disparati eppure in qualche modo intrecciati: l’opportunità che mi è stata data di raccontare agli studenti dell’Aristofane e a tanti cittadini momenti cruciali della storia dei loro quartieri; un 25 aprile di sole e di musica al Brancaleone; la conferenza di Michael Herzfeld su che cosa è oggi l’antropologia – e ho risposto con proposte anch’esse disparate.
PORTARE AL BRANCALEONE la scuola di musiche popolari del Circolo Gianni Bosio; rovesciare il discorso della memoria mandando non i ragazzi a intervistare i nonni ma gli anziani a intervistare i ragazzi, dei quali sappiamo sempre troppo poco. Queste due cose non sono partite, ancora, ma c’è tempo. Un aspetto di questa molteplicità, che mostra anche il modo non acritico in cui si realizzano le forme di partecipazione, è la discussione che si sviluppa in diversi di questi interventi sulla relazione fra militanza, volontariato e lavoro non retribuito. Sono confini labili, in buona parte anche soggettivi, ed è importante che la domanda ce la poniamo. Io però credo che un elemento discriminante stia nel fatto che quello che facciamo smette di essere lavoro non retribuito nella misura in cui lo facciamo, almeno in parte, per noi stessi – cioè nella misura in cui riconosciamo la corrispondenza fra il nostro interesse (non necessariamente in senso immediatamente materiale) e l’interesse collettivo, che è poi il senso di quella buona politica che vorremmo ricostruire. Per questo mi pare anche simbolicamente giusto che «Grande come una città» nasca e cresca in parallelo con la battaglia sul Tmb Salario: perché è quello di cui si tratta. Letteralmente e metaforicamente, è proprio l’aria che respiriamo, tutti insieme e ciascuno di noi.
DUE FLASH DI MEMORIA, per chiudere. Hanno a che fare con i tempi di illusioni o speranze o visioni di rivoluzione. Uno riguarda la prima volta che, nella sede di piazza Sempione, ho osato prendere la parola in una riunione dei collettivi del manifesto, ai tempi della ventilata fusione con Potere Operaio. In quel momento la proposta politica dei nostri interlocutori era «la difesa armata dei quartieri popolari». Io mi alzai per dire che mi pareva una stupidaggine: non era pensabile fare barricate su una strada larga come viale Jonio, e bastava mettere tre mitra in cima a quella buca di Prato Rotondo per sgominare qualunque rivolta... L’altro, un tardo pomeriggio che uscivo da una riunione del collettivo a piazza Sempione e sul ponte Tazio vidi, di spalle, una signora di mezza età o poco più che camminava lentamente caricata da due borse pesanti della spesa. E mi domandai: ma tutte le cose di cui abbiamo parlato alla riunione, che relazione hanno con la vita, con la quotidianità, con il futuro di questa signora? Forse non sa nemmeno che esistiamo, e molto probabilmente non è a lei che stiamo parlando. Ecco, ci ripenso perché «Grande come una città» mi rinvia a quei dubbi, ma anche a quanto di possibile c’era in quelle speranze.
NON C’È DUBBIO che si tratti di una forma di difesa e liberazione dei quartieri popolari e di tutto il territorio: e visto che invece della chiamata alle armi di Potere Operaio nasce da una «Chiamata alle arti», si tratta di una difesa che riguarda soprattutto le coscienze e le intelligenze, minacciate e aggredite con una violenza pervasiva senza precedenti. E aggiungerei: si tratta di una forma di difesa capace di coinvolgere, se non forse la signora di ponte Tazio, sicuramente i suoi figli, nipoti, vicini di casa; è anche un tentativo di uscire, scegliendo luoghi e spazi non canonici e non previsti, da quell’autoreferenzialità che sentivo nei nostri discorsi di politica e che ancora fossilizza tanta parte del lavoro culturale nel nostro paese.
Una canzone che a Roma sanno in tanti, e che ci è stata insegnata proprio dalla famiglia Menichetti di Val Melaina, parla di «questa città ribelle e mai domata». Ecco, ribelle non so. Ma quello che succede al di là dell’Aniene, e che da lì si connette a tante altre esperienze a Roma e nel resto d’Italia, è sicuramente il segnale della possibilità di una città che respira, una città nonostante tutto viva e non domata.

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