VISIONI

Atto d’accusa contro la forza minacciosa dell’antisemitismo

In sala da domani «L’ufficiale e la spia», Gran Premio della giuria a Venezia. Protagonista Jean Dujardin
SILVANA SILVESTRIITALIA

Non solo lo ricordiamo come un film perfetto, dopo averlo visto alla Mostra del cinema di Venezia, ma, con l’incalzare degli eventi è sempre più di amara attualità J’accuse il nuovo film di Polanski ora nelle sale con il titolo L’ufficiale e la spia.
Mentre il titolo originale dà la sferzata iniziale perché entra direttamente nel cuore dell’Affaire Dreyfus citando il titolo del feroce scritto di Zola su L’Aurore in difesa dell’ufficiale colpito da «una delle peggiori iniquità del secolo», le false accuse di tradimento e spionaggio a favore della Germania (che aveva appena incamerato Alsazia e Lorena), attaccando una per una tutte le gerarchie del potere (e per questo si fece anche un anno di carcere per diffamazione a mezzo stampa). Un caso subito messo in scena in diretta dal nascente cinema con Georges Meliès nel 1899.
COLPISCE del film fin dalla prima scena ambientata nella grande piazza d’armi, una profondità teorica che nulla ha a che fare con i modelli del film storico, non descrizione ma sdegno, non illustrazione di ambienti del passato, ma per qualche sortilegio cinematografico non è il passato a venire verso il pubblico, ma è lo spettatore a trovarsi in compagnia della sua coscienza nel mezzo di quel drammatico periodo antisemita della terza repubblica francese di fine Ottocento. Una prova è l’uso fuggevole, pochi secondi appena, delle citazioni dei celebri immagini che assumono il valore del vissuto, ci sono passate accanto quelle figurine viste anche da Seurat, da Toulouse-Lautrec.
SI AVVERTONO i brividi inquietanti della contemporaneità fin da quando incontriamo in quella piazza d’armi del 1894 il capitano Alfred Dreyfus, tra i pochi ebrei presenti nell’esercito francese, degradato e condannato. «Ha la faccia da sarto ebreo che piange per l’oro che non ha più» è il commento di un ufficiale quando gli vengono tolti i gradi, «i romani davano i cristiani in pasto ai leoni, noi gli ebrei» commenta un altro. Dreyfus è interpretato da Louis Garrel dai modi austeri nella sua ricerca dell’onore perduto da riconquistare, imprigionato su uno scoglio sperduto nella Guyana francese sull’isola del Diavolo farà la sua ricomparsa nel film solo quando il processo sarà riaperto.
L’Affare Dreyfus scosse la Francia fino a cambiarne i connotati, fu considerato la prima scintilla che produsse in seguito Auschwitz per avere alimentato violentemente l’antisemitismo, o meglio avere portato alla luce l’antisemitismo radicato nella società. È soprattutto in questo ambito che si muove il film lasciando come un’eco lontana i problemi giudiziari del regista.
IL RACCONTO è tenuto saldamente in mano dalle azioni del tenente colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin, l’interprete di The Artist) fin dal momento in cui è nominato nuovo capo dell’ufficio informazioni dello Stato Maggiore. Lui diventa la coscienza della sua epoca e anche della nostra, funzionario che non si lascia intimorire dalle alte sfere, non accetta, benché militare, il principio dell’obbedienza agli ordini quando siano sbagliati, al contrario dell’ufficiale subalterno prono al servizio, all’origine delle dittature («me ne frego se è innocente, bisogna eseguire gli ordini, decidono i capi»). Picquard agisce con cautela e precisione, prende l’iniziativa di denunciare l’errore giudiziario quando ha tutte le prove in mano nonostante i depistaggi. Nel film vediamo la guerra in atto tra ordine costituito e verità, concetto giuridicamente irrilevante, ma non moralmente.
L’ELEMENTO di humour nero che caratterizza il cinema di Polanski lo cogliamo questa volta nelle tecniche di investigazione dell’epoca, soprattutto perché mette in evidenza certi metodi vetusti che ancora resistono nella giustizia contemporanea. Ma è un elemento che corre sotterraneo, nello stile dei suoi ultimi film prende il sopravvento una forza minacciosa, una poetica di estremo rigore politico.

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