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Greta si è fermata a Taranto

Nuova finanza pubblica
MARCO BERSANIITALIA/taranto

Ogni volta che Greta parla in sede pubblica, leader politici di ogni estrazione culturale si sbracciano per tributarne la saggezza, per applaudirne le dichiarazioni o, più pragmaticamente, anche solo per fare un selfie che male non fa. Salvo poi rimuoverne totalmente tanto il messaggio quanto l’indignazione non appena le contraddizioni s’inverino in carne e ossa e diventino realtà.
La realtà di Taranto e dell’impianto siderurgico più grande d’Europa ne è un esempio. Eccoli allora di nuovo tutti inginocchiati al sacro altare del Pil, che decresce da cinquant’anni ma guai a farsene una ragione; eccoli di nuovo a riscoprire, soprattutto a sinistra e dentro comode sedi con l’aria condizionata, il mito prometeico dell’operaio che sfida l’altoforno; eccoli di nuovo proni al profittatore di turno travestito da imprenditore.
Nessuno che trovi neanche un barlume di coraggio per dire alcune sacrosante verità.
L’Ilva è un mostro climatico. Nelle statistiche della Commissione Europea, occupa il 42esimo posto in Europa - e il quarto in Italia - nella classifica delle principali fonti di emissione di CO2 (4.700.000/tonnellate/anno). Ma, se consideriamo anche le due centrali termoelettriche CET2 e CET3 asservite al suo ciclo siderurgico, le tonnellate/anno diventano 10.688.650 e l’Ilva balza al primo posto in Italia ed entra nella top ten continentale.
L’Ilva uccide. Sono almeno 90 all’anno i morti direttamente attribuibili all’inquinamento prodotto dall’impianto siderurgico. Il paradosso è che molti di questi sono in primo luogo i lavoratori dell’azienda, che si ammalano tanto dentro la fabbrica, quanto dentro le proprie case nei quartieri a ridosso dell’impianto. E muoiono i bambini, in percentuali superiori del 54% rispetto alla media.
L’Ilva non garantisce occupazione. In un contesto di sovrapproduzione mondiale dell’acciaio, ArcelorMittal l’ha comprata solo per garantirsi il profitto dettato dal vantaggio competitivo derivante dal cosiddetto “scudo” - ora finalmente rimesso in discussione - che permetteva all’azienda di gestire uno stabilimento senza fare alcun investimento per la riconversione tecnologica e chiamandosi fuori da ogni obbligo su sicurezza ed inquinamento.
Questi dati sono tanto incontrovertibili quanto rimossi nella discussione pubblica, dove tutto pare incentrato sulla necessità della riconferma dello status quo di un modello che ha da tempo fatto cortocircuito.
È una rimozione non priva di fondamento. Perché prendere atto delle verità sopra descritte obbligherebbe tutti gli attori politici e sindacali a dover fare i conti con un altro nodo di fondo: la trappola del debito e la gabbia di Maasricht.
Cosa servirebbe infatti oggi a Taranto? Il coraggio di dire che l’Ilva non è sostenibile da nessun punto di vista, che va portata alla chiusura in sicurezza e che l’intera area deve essere coinvolta in un progetto di bonifica e di riconversione produttiva, in grado di garantire occupazione e reddito a tutti gli attuali lavoratori.
Ma chi può finanziare un progetto di tale dimensione? Naturalmente solo lo Stato. Ma, per poterlo fare, deve prendere di petto la trappola del debito che ogni anno ci obbliga a pagare 60 miliardi di interessi, quando ne basterebbero tre per ridare un futuro ai bambini di Taranto; e deve ribaltare le regole di Maastricht, che impediscono al pubblico di perseguire l’interesse generale, costringendolo a fare il vigile urbano degli interessi finanziari privati e multinazionali.
Da qualsiasi parte la si prenda, ogni contraddizione che attraversa il paese rimanda sempre allo stesso nodo: possiamo continuare a sacrificare vita, salute, diritti e futuro sull’altare dei sacerdoti del Pil e dei fanatici del pareggio di bilancio?
«Il Pil misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta» diceva Robert Kennedy. È già passato più di mezzo secolo. 

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