VISIONI

Lo sguardo oltre l’orizzonte

Presentato a Venezia dove Marinelli ha vinto la Coppa Volpi, ha incassato sinora 1,7 milioni al box office
LUIGI ABIUSIITALIA

Per molto tempo mi sono interrogato a proposito del pullulare delle immagini, ostinato, inveterato nei secoli; l’infinito assedio di piani abbaglianti, evanescenti su questo congegno a nervi, a dissipazione costante che è il soggetto in accezione lacaniana; l’eco lasciata ogni volta dalla loro scomparsa, quel grumo di ricordi, lampi, tentati in continuazione dalle dissolvenze; e mi sono ritrovato a sognare un unico grande film, sempre lo stesso, ripetuto in eterno, entro cui potersi ritrovare al di là del caos, eppure perdendosi dentro il mare della poesia, come lo chiamava Schelling, nei vortici di luce aperti all’improvviso nell’oceano di Solaris, o buchi neri, buchi di sceneggiatura in cui divenire, l’io, apertura, baratro. E ciò, me ne rendo conto, in modo anacronistico rispetto all’accumulo compulsivo e innumerevole di visioni, per lo più superflue, che caratterizza il nostro tempo: la collezione di titoli, il consumo veloce, vorace della materia cinematografica e culturale, alla maniera dell’ingollamento dei popcorn e delle bevande zuccherine una volta lì, davanti allo schermo.
È IL SOGNO di un film in quanto storia di un uomo che si pone di fronte alla complessione del film, delle immagini, cioè di fronte al mare di ragioni alla base del proprio essere, di cui il film, o meglio, ogni apparato linguistico dotato di Senso, o ala ricerca di dialettica, è specchio; come Alexandros alla fine dell’Eternità e un giorno, che grida parole verso lo specchio del mare, ricevendone vento in risposta, il mormorare vaporoso, spumoso dell’acqua infranto contro la riva. Che è lo stesso orizzonte in cui scompare la sagoma stracca, l’ombra oramai sbiadita del poeta in Martin Eden di Pietro Marcello, declinazione di quell’unico, essenziale film di cui s’attende ogni volta l’apparizione, perché cinema che non si occupa che di se stesso, dell’articolazione linguistica significativa, cruciale, tutta una grammatica della fantasmagoria, nella quale il soggetto, invischiato nel proprio destino di consunzione, può prendere senso non constando, non constatandosi ma immaginandosi.
PERCIÒ torno a Martin Eden, dopo che il film è passato in concorso a Venezia e uscito con successo in molti paesi, per tornare su uno dei pochi capolavori italiani di questi ultimi tempi; per tornare cioè alla congruenza tutta evanescente delle immagini, a qualcosa che abbia parvenza di originario, anzi di immemore: non alla logica di una storia, di un racconto che abbia tutti i crismi narratologici al suo posto (e per cui certa critica miope, incapace di guardare oltre il dato, oltre il visto, l’inesorabile direi, va in sollucchero), ma di un’opera per immagini, per immaginazione (aperta al visibile, all’infinita potenzialità delle immagini da trascegliere), che apre in continuazione spiragli in sé, in cui inserirsi per immaginarlo il film, perderne le redini, perderlo di vista più che vederlo. E in questo senso va dato merito a Braucci che non ha scritto troppo un film che chiedeva sin dall’inizio di essere liberato dalle stretture della scrittura nonostante, o forse proprio perché, provenisse da un libro, e un libro così straordinario per giunta. Perciò scrittura allusiva quella di Braucci, soprattutto nella seconda parte, sulla base della quale Marcello compone la sua rapsodia per ellissi ed archi, quelli di Bach che chiudono liricamente il film innervando il mare e il tramonto, come un sibilo di un tempo (ormai fuori dalla Storia) che si smorza eppure si preannuncia ancora in quanto barlume, eco.
Una poesia, e una poetica, che non si vedevano da molto tempo in un film, tanto più in Italia: sguardo proiettato oltre l’orizzonte del finito, dell’immagine data una volta per tutte, anziché al di qua di un mondo che non merita di essere raccontato se non nel visibilio che lo eccede, lo accende e di cui Marcello-Eden è «uno degli orecchi attraverso cui il mondo sente, uno degli occhi attraverso cui il mondo vede», come dice, scandisce sonoramente Martin, in totale deliquio da letteratura.
UNA DEMIURGIA allora (non una storia), una veggenza inaugurata non casualmente, credo, dalla Benedizione di Baudelaire, che è una delle prime pagine che Martin legge a casa di Elena, mentre nel romanzo di London si trattava di Swinburne; poi comprovata dalla cosmogonia di Campana, dei Canti Orfici che compaiono fugacemente, su un treno, nell’edizione Ravagli del 1914: Martin Eden è un film fantastico (film di fantasia), che abbatte ogni idea di cronologia lineare, realistica, in favore del brulicare atemporale, ancestrale dell’opera. Ed è in questo ecosistema che Martin-Marcello impone un’etica legata alla bontà dell’opera, di cui lo scrittore (il poeta, per usare il termine generico nietzschiano) è veicolo: quel protendersi verso l’altro sulla base di una «religione dell’avvenimento del mondo», scriveva Mario Luzi proprio a proposito di Campana, anziché in nome di corporazioni e massimalismi zdanoviani (limitanti e svilenti dell’io), tanto meno del falso, opprimente laissez-faire liberista.
Martin si libera di queste ideologie vincolanti per affermarsi come individuo, cioè poeta, e per farsi annettere alla fine - proprio in quanto individuo che non può che pensarsi, immaginarsi - al mare di Bach; per annegare, finito l’amore, sfinito l’amore, nell’arco della poesia, di brandelli di luce anelanti alla bruma, alla dissolvenza.

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