VISIONI

Un ballo di maschere per comprendere i «Panama Papers»

Gary Oldman e Antonio Banderas sono i due avvocatial centro dello scandalo, Meryl Streep la loro «vittima»
EUGENIO RENZIusa

In Panama Papers, Steven Soderbergh ha un problema pedagogico di primo rilievo: come far amare una lezione di economia contemporanea, con l’aggiunta di un serio problema di diritto privato internazionale, il tutto attraverso lo studio di circa 11 milioni di pagine di documenti, noti con il nome di Panama Papers, certo evocativo, ma non esattamente una crociera di piacere?
ECCO CHE il nostro ormai vecchio capofila del fu cinema indipendente americano ci invia non uno, ma ben due professori di quelli che tutti avrebbero voluto vedere in cattedra: Gary Oldman e Antonio Banderas. Il primo simula l’accento teutonico dell’avvocato Jürgen Mossack (con estro, anche se in questo ruolo avremmo ascoltato più volentieri Christoph Waltz, o – perché non sognare –Werner Herzog), il secondo, nei panni dell’uomo d’affari Ramon Fonseca, non deve far nulla per correggere l’inflessione latina del proprio inglese. E se gli attori sono lì per intrattenerci, i rispettivi personaggi devono spiegarci come sono riusciti a creare un impero di conchiglie vuote, di società fittizie con sede in diversi paradisi fiscali, e così a garantire ai propri clienti di poter sfruttare i mercati in cui operano pur aggirandone le leggi. Cosa che noi, ovviamente, non faremo.
MA ANCHE con un peso massimo dello spettacolo come Oldman e con un genio del frollino come Banderas, il rischio dell’indigestione resta alto. Tanto più che, per rimetterci a livello del suo corso in economia e frode fiscale, Soderbergh ricomincia dall’età del baratto. Ecco che la prima sequenza passeggia tra le epoche, attraversando rapidamente la storia degli scambi, dalla vacca alla carta moneta, dal credito al mercato dei derivati. L’impresa resta ardua. Chi ha avuto la fortuna di frequentare gli studi dei notai, sa che questi hanno sempre in serbo qualche storiella per intrattenere i loro clienti mentre si firmano centinaia di pagine di contratti. Soderbergh dalla sua ha Meryl Steep, che per non sbagliare moltiplica in due personaggi dalle storie al tempo stesso opposte e complementari. E forse anche un terzo ruolo, non come personaggio ma come persona e attrice professionista che il presidente degli Stati uniti ha pubblicamente insultato (come tante altre donne che hanno osato tenergli testa).
Non è la prima volta che Hollywood tenta una lezione di questo tipo. Dall’ultimo crack ad oggi, il cinema nordamericano ha cercato di spiegare che il capitalismo non è un sistema economico infestato da alcuni criminali, ma un crimine infastidito da alcune persone oneste. Tentativo lodevole, e apparentemente inutile. Come La grande scommessa anche Panama Papers adatta un libro – o meglio ne commenta alcuni capitoli.
IL SEGNO distintivo di questo genere è proprio la presenza di un cicerone che accompagna lo spettatore nel cuore della truffa, interagendo in tempo reale con la finzione, e ogni tanto girandosi verso lo spettatore per spiegargli o per commentare, dandogli quel tanto di informazioni tecniche che servono a capire l’inghippo. È una tecnica certo non nuova, ma che in queste commedie ha il doppio ruolo di aggiungere un tono irriverente alla storia, e infine di far sentire lo spettatore dalla parte dei furbi; mentre statisticamente è probabile più che faccia parte dei fessi che hanno subito la truffa, poi incassato la beffa e infine pagato il danno. Il tratto distintivo di Panama Papers è una certa disinvoltura di stile – piacevole e a tratti riuscita – che rievoca gli esperimenti ormai lontani dei primi anni 2000, quando il cinema indipendente si era messo in testa di contrastare i film degli studios con dei progetti corali dal cast stellare.
Il rischio dell’operazione è lo stesso nel quale incorre il professore che mette l’immaginazione al servizio della pedagogia: affabulare la propria assemblea, trasmettere l’illusione di aver assimilato un materiale assai complesso, che invece è rimasto tutto nella scatola, insieme agli 11 milioni di documenti dello scandalo Panama Papers.
CI SI RISVEGLIA dal puzzle di aneddoti che ritmano i 5 capitoli del film con l’impressione effimera di aver capito il perché, il percome e il perchi. Invece si è assistito ad una leggera evasione, ad un ballo di maschere al tempo stesso sofisticato e schiatto, anche se non banale in sé. Evasione che sembra in primo luogo essere quella del regista dalla materia stessa del film, come se l’operazione di Soderbergh non fosse tanto volta a svelare i retroscena d’uno scandalo del nostro tempo. Quanto piuttosto a osservarne, come dall’esterno la rappresentazione, con occhio distaccato, disincantato, ironico ma non cinico – lo sguardo stralunato di chi si dice: è mai possibile che non ci sia un modo meno assurdo di raccontare il mondo in cui viviamo? In questo senso, il giro vale il gettone.

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