VISIONI

La magia del racconto, un gioco di specchi tra emozioni e ironia

Una famiglia, i suoi segreti, tre generazioni di donneIl set e l’autobiografia, la scoperta di una complicità
CRISTINA PICCINOFRANCIA/giappone

Chi è davvero Fabienne star del cinema francese circondata da uomini al suo servizio, mai gentile, «egocentrata», che al giornalista intimorito - e adorante - risponde rimandando alle interviste rilasciate già a altri? Un’attrice, una «grande dama del cinema» che nella sua villa con alle spalle un carcere si scopre di fronte all’età una fragilità imprevista: la paura di essere alla fine della carriera, su quel «viale del tramonto» che per chi come lei è abituato a essere al centro dell’attenzione è l’angoscia più atroce. Fabienne ha appena pubblicato le sue memorie, la personale narrazione di sé perché come ripete alla figlia tornata a Parigi per l’occasione dall’America insieme alla famiglia, una bimba e un attore di serie televisive belloccio ma con poco talento, la verità non è appassionante, meglio la bugia dell’invenzione.
E questa è anche l’essenza di La vérité, il nuovo film di Kore-eda Hirokazu, Palma d’oro lo scorso anno a Cannes per Un affare di famiglia, scelto per inaugurare la scorsa Mostra del cinema di Venezia, ora in sala. Per la sua prima regia fuori dal Giappone e con un cast internazionale, Kore-eda si è affidato a grandi interpreti a cominciare dalle due protagoniste, Catherine Deneuve e Juliette Binoche – quasi «Eva contro Eva» in una relazione madre e figlia che si moltiplica come un gioco di specchi tutto femminile: la nipotina di Fabienne, Charlotte (Clémentine Grenier), la giovane attrice protagonista del film che Fabienne sta girando(Manon Clavel) e che tutti dicono somigli a una sua un’amica carissima ma anche rivale di set morta tanti anni prima, un’altra attrice spaesata che nello stesso film interpreta Fabienne da giovane (Ludivine Saigner) - e la storia parla proprio di una madre e di una figlia, di un abbandono forzato e di un’assenza. Gli uomini invece rimangono ai bordi, padri, mariti, ex, segretari, forse amanti, sembrano quasi risucchiati da questo «incantesimo» di parole e di invenzioni la cui superficie smentisce a ogni passo i fatti.
Trasmissione, complicità, delicati equilibri. I ricordi che la memoria plasma assecondando l’emozione del presente, la delusione di carezze mai date, i tradimenti, sensi di colpa, le reciproche accuse. La figlia di Fabienne, Lumir (Binoche) è sceneggiatrice, ha scritto per sé un’altra trama della propria infanzia che stride con quella materna: ma cosa è vero? E cosa invece nasce dai sentimenti, dall’immagine che ognuno vuole dare al mondo, dai silenzi decisi per non ferire? Kore-eda lo ha definito un’opera su «una madre e una figlia che imparano a accettarsi per quello che sono e che, al di là delle differenze reciproche mantengono vivo un legame che si evolve tra magia e bugia. E di magia e di bugia sono fatte le relazioni famigliari».
È un motivo questo che torna nei suoi film, in cui la distanza tra la realtà dei rapporti e la loro rappresentazione scorre spesso su una duplice crepa labile e insieme tenace. Anche Lumir mente alla figlioletta, le dice che il padre (Ethan Hawke) è sul set quando è invece è in rehab (è alcolista) e lui a chi chiede perché non beve risponde che è per prepararsi a un grande ruolo. Nell’interno familiare Kore-eda costruisce la sua messinscena della rappresentazione, quasi un disvelamento dell’essenza del narrare, dunque del cinema, e non solo per l’universo a cui appartengono i suoi personaggi.
L’OSCILLAZIONE tra un istante di verità e di abbandono che subito si piega alle esigenze del proprio ruolo, persino con cinismo o con smaliziata consapevolezza ne mostrano una sostanza, un funzionamento che è quello del racconto. Sembra infine commuoversi Fabienne memntre abbraccia Lumir - ma ecco che quella lacrima è lo spunto per rigirare una scena: «Dovevo farla così» grida. Cinismo? E se la figlia fosse invece complice con le battute della vita - quelle di cui riempie le sue storie.
ANCHE lui, Kore-eda partecipa a questa trama, dissemina tracce di una sua verità, e di una sua magia, allusioni alla realtà (un autore che muove troppo la macchina di cui parla Fabienne/Deneuve a proposito di un suo film recente: Lars von Trier?). E del resto Fabienne non è un po’ alla sua interprete, la stessa Deneuve, l’icona bionda del cinema francese, che all’inizio aveva un doppio bruno, la sorella Françoise Dorleac, morta in un incidente, pure se questa non è naturalmente la storia della sua vita. Così la giovane attrice che somiglia a Sarah, l’amica che Lumir amava più di lei, da cui si sentiva derubata ha gli occhi di cerbiatto vuole invece essere solo se stessa: «Nessuna eredità sulle mie piccole spalle» sussurra con falsa (?) modestia - già perfettamente in parte.
Nell’autunno parigino di foglie che si tingono di giallo e di rosso è come se fossimo sempre là dove tutto è già accaduto mentre sta accadendo, un tempo che si dilata, che sorprende, che scorre tra appunti distratti di malinconia e di rivelazioni. Forse il nonno della piccola Charlotte - apparso a un certo punto dal passato - è tornato a essere una tartaruga in giardino come dice Fabienne, e lei che lo ha reso tale è davvero una strega. L’importante è crederci. O provarci. E il cinema non è questa magia?

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it