CULTURA

La sintonia negata dell'America nera

Tra noir e «Young adult» l’identità afroamericana attraverso la musica
ANDREA COLOMBOusa

Garden Heights è un ghetto immaginario, uguale ai tanti che si trovano in ogni città d’America. Brianna Jackson, per tutti Bri, vive lì, probabilmente a un passo da Starr, coetanea e protagonista del precedente libro di Angie Thomas, The Hate U Give, una bomba editoriale nata come romanzo per «Young adults» e rimasta poi ai vertici delle classifiche per oltre un anno, come una specie di testo base di Black Lives Matter. Starr aveva visto il miglior amico ammazzato senza altro motivo che il colore della pelle dalla polizia. Nel nuovo romanzo, On the Come Up. Questa è la mia voce (Rizzoli, pp. 426, euro 18.00, traduzione di Giuseppe Iacobacci) Bri si muove in un quartiere devastato dalla sommossa seguita a quell’omicidio. Giusto per rendere un po’ più dura la vita di una ragazza cresciuta col padre ammazzato in mezzo alla strada e una madre ex tossica uscita a testa altissima dalla dipendenza da crack ma ancora costretta a fare i conti con i soldi che non bastano mai.
SE LAWLESS, il padre ammazzato nella guerra tra gang, non fosse morto così presto le cose sarebbero state ben diverse. Era un rapper già lanciatissimo, una leggenda sopravvissuta nel quartiere che rende Bri, a modo suo, una specie di principessa del ghetto. Avrebbe fatto i soldi, la famiglia si sarebbe lasciata alle spalle Garden Heights: il razzismo non solo dei bianchi ma anche delle zone meno povere nei confronti di quelle straccione, lo stillicidio quotidiano di cadaveri, la droga. È il sogno di Bri: rappa anche lei ed è bravissima. Scoprirà che anche il successo, nel ghetto, è una bestia difficilmente addomesticabile. I testi gangsta vengono fraintesi, l’ironia presa alla lettera. I fans si esaltano con i video virali e cuciono addosso alla star di turno un’immagine che non corrisponde nemmeno da lontano alla realtà ma che rischia invece di imporsi e diventare vera. Arriva sempre qualche mamma benintenzionata, di solito bianca e benestante, convinta che a traviare la meglio gioventù siano le canzoni, non la miseria o la disoccupazione o il razzismo strisciante.
Angie Thomas, ex rapper ed ex scrittrice di racconti fantasy nata a Jackson, Mississippi, oggi trentunenne, passa per un’autrice di libri per ragazzi e infatti il suo secondo romanzo, nelle librerie italiane, è scivolato spesso negli scaffali dell’editoria per i più giovani. Un po’ come piazzare Boyz’n’the Hood, il capolavoro di John Singleton, grande regista scomparso prematuramente nell’aprile scorso, in mezzo ai dvd di Happy Days: in fondo sempre di adolescenti si tratta.
In realtà Angie parla davvero dei giovanissini neri americani, usa il loro linguaggio, cita i loro idoli, conosce e ama la loro musica. Racconta il loro rapporto difficile con famiglie disastrate, i loro primi amori, l’impatto con un sistema scolastico e giudiziario che punisce e penalizza sempre neri e latinos. Ma lo stile leggero finisce consapevolmente per moltiplicare la durezza del quadro complessivo, che di leggero non ha davvero niente. Angie fa con la scrittura quello che l’hip hop ha fatto per decenni con le rime. Racconta il ghetto nella sua spietata realtà e la forza che chi ci vive dimostra ogni giorno riuscendo non solo a sopravvivere ma a vivere, sperare e sognare e tentare il Coming Up. L’ascesa. La liberazione.
PIÙ CHE UN’AUTRICE per ragazzi, la ex rapper di Jackson fa parte a pieno titolo di quel gruppo di scrittori afro-americani che sta rovesciando come un guanto e rivitalizzando l’esangue letteratura americana. Colson Whitehead, con la sua genialità eclettica e visionaria, del quale è appena uscito il nuovo romanzo, I ragazzi della Nickel (Mondadori), dopo il Pulitzer e il National Book Award vinti con lo straordinario La ferrovia sotterranea (Sur), Paul Beatty, che mitraglia parole come Kendrick Lamar spara rime e dimostra nei fatti e nei libri che l’ironia feroce applicata a se stessi non è appannaggio degli autori ebrei. Tayari Jones, di cui finalmente è stato tradotto in italiano, da Neri Pozza, l’ultimo romanzo, Un matrimonio americano, nel quale la parabola del fallimento del matrimonio tra due neri di diversa estrazione e identiche aspirazione è usato per passare ai raggi x non la comunità nera ma l’intera America. Restano ancora in attesa di pubblicazione i suoi tre romanzi precedenti.
On the Come Up, a sua volta un best seller in America, è anche una riflessione sottile e lucida sul rapporto tra immagine e realtà nell’hip hop e sul ruolo essenziale della musica nella vita del ghetto e nella parabola dei neri americani. L’importanza di quel ruolo e di quella storia è indiscutibile. Quando, negli anni ’80, Michael Jackson e Whitney Houston occuparono per primi in pianta stabile le tv americane non fu una rivoluzione solo nel mondo dello spettacolo ma un terremoto che cambiò molto, se non tutto.
Nessuno ha raccontato quella vicenda, nelle sue luci e nelle sue ombre, più e meglio di Nelson George, critico e storico della musica nera, regista e scrittore. In Italia è poco noto. Dei suoi fondamentali libri sulla musica nera è stato tradotto, da Arcana, solo Motown. Storia e leggenda. Oltre Atlantico invece torreggia, con studi che adoperano l’evoluzione (e a volte l’involuzione) della musica nera come chiave per descrivere, analizzare e scoprire i percorsi profondi della condizione afro-americana dal dopoguerra a oggi: Death of Rhythm&Blues, Post-Soul Nation, Hip Hop America, ma anche analisi del ruolo del basket come Elevating the Game: Black Men and Basketball.
Nelson George non spreca tempo e inchiostro per dissertazioni accademiche. Va dritto alla struttura, alle etichette nere e al rapporto con le grandi case discografiche bianche, al ruolo delle radio nel diffondere la cultura afro-americana, al suo affermarsi come veicolo di potere reale ma anche come oggetto di una colonizzazione di ritorno da parte degli artisti bianchi e dei grandi apparati di produzione. A partire dal 2011 ha iniziato una serie di noir con il personaggio di D Hunter, bodyguard e produttore musicale, affetto da Hiv, tre fratelli maggiori ammazzati. L’ultimo, Funk e morte a L. A., è stato pubblicato da Jimenez (pp. 282, euro 16.50, traduzione di Gianluca Testani) ma per ora senza la diffusione che meriterebbe.
NEI ROMANZI George inverte la direzione. Invece di usare la black music per raccontare la storia dei neri americani, adopera le trame noir, in questo caso una vicenda turbinosa in stile blaxploitation che ruota intorno a una vecchia stella del rap old school, Dr. Funk, per centrare l’obiettivo sulla musica nera e sulla sua postazione nell’imponente industria culturale americana, con tutto quel che ciò comporta in termini di giro di miliardi e di intrecci col crimine.
In questo terzo romanzo, D. Hunter, newyorchese, è in trasferta a Los Angeles. Gli hanno appena ammazzato lo zio, un padreterno del ghetto con attività nascoste di strozzino. La città degli angeli è un gigantesco mondo di mezzo, dove ghetto e ville di lusso confinano e sconfinano, dove bodyguard, capitalisti neri d’assalto e criminali da strada si incontrano, si scontrano e si scambiano i ruoli, in una giostra che alla fine rinvia sempre alla musica. E a quanto la cultura e la stessa economia dei neri americani con la musica si identifichino.

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