VISIONI

Agrippina, rutilante dark lady imperatrice al Covent Garden

Joyce Di Donato domina la scena nei panni della sovrana di Handel diretta da Barrie Kosky
ANDREA PENNAGB/LONDRA

I palazzi del potere sono gelide stanze in strutture modulari in metallo cromato: si chiudono, si aprono e ricompongono intorno a una scalinata, il popolo dei sudditi assente, il palazzo abitato solo dai protagonisti di una congiura contemporanea, come in una serie tv. Tutti vogliono salire la scala del potere in Agrippina di Handel, anche se sin dal primo atto dell’opera creata a Venezia nel 1709 e in scena al Covent Garden di Londra fino al’11ottobre, il regista Barrie Kosky ci mostra quando pericolosa possa essere l’ascesa. Eppure tutti macchinano, a partire da Agrippina, Joyce DiDonato, estrosa, autoritaria e fulminante nella recitazione e nel canto - salvo occasionali imprecisioni - rutilante come una dark lady alla Lana Turner nell’ostentato cambio d’abiti.
L’ARIA «Pensieri, voi mi tormentate» nel II atto, vertice dell’opera e della prova di DiDonato, mostra quanto Handel fosse pronto alla sperimentazione, rielaborando il modello delle arie barocche veneziane, grazie anche al magnifico libretto di Vincenzo Grimani, ricco di ironia e riferimenti alla politica contemporanea. Stessa routine ma con un tocco pop alla Geri Halliwell, fra canto e febbrili corse sulle scale, per la bionda Poppea di Lucy Crowe, un po’ dura in acuto ma briosa nelle agilità e nelle puntature del terzo atto.
LE DUE DONNE travolgono tutti i personaggi maschili nelle loro scatenate trame politico-amorose, che lo spettacolo lascia volentieri scivolare in vere pochade alla Feydeau, complete di pantaloni alle caviglie e «cielo mio marito!». Nerone è un ragazzo sociopatico e viziato, in felpa e cranio alla skinhead: Franco Fagioli, sorprendente nel canto fiorito, appare sfocato nei recitativi. Gianluca Buratto vela l’autorità virile di Claudio della bonaria passione di un Falstaff; invece Iestyn Davies, il paladino Ottone, canta con garbo sereno e intanto le prende di santa ragione da tutti. Corrono di qua e di là i dignitari Pallante, il focoso Andrea Mastroni, il subdolo Narciso, Eric Jurenas, e Lesbo, un protervo José Coca Loza: tutti ingranaggi della macchina scenica di Kosky, nata a Monaco di Baviera, che vortica senza sosta, ma tolti alcuni passaggi elettrizzanti risulta ripetitiva e mortificata dal gelido, punitivo disegno di luci.
NON È TROPPO d’aiuto nemmeno Maxim Emelyanychev che, alla guida dell’ottima Orchestra of the Age of Enlightment, esagera i contrasti, con tempi brillanti e nervosi. Dopo tanti rivolgimenti la trama si scioglie: Nerone è designato erede imperiale, sua madre Agrippina rimane accanto a Claudio sul trono, Poppea e Ottone coronano il sogno d’amore senza corona. L’istantanea di un momento già pronto a cambiare, per il seguito si guardi indietro a Monteverdi o nel futuro a Boito, secondo i gusti. Anche la scrittura operistica di Handel sarà destinata a evolvere ma basterebbe Agrippina, con le sua varietà di invenzioni melodiche e formali, per garantirgli un posto nella storia della musica, come prova il vivace entusiasmo del pubblico.

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