CULTURE

Bambini telecinetici nel lager della Storia

«L’Istituto», l’ultimo romanzo di Stephen King
ANDREA COLOMBOusa

I mostri più spaventosi partoriti dalla fantasia di Stephen King in cinquant’anni di carriera non vengono da dimensioni misteriose. Non vantano poteri sovrannaturali né fattezze terrificanti. Sono donne e uomini normali, che svolgono coscienziosamente il loro delicato lavoro. Alle spalle hanno un addestramento militare, perché solo nell’esercito si sviluppano davvero le doti necessarie per svolgere al meglio il loro compito: disciplina, durezza, discrezione. Forse, a osservarli con maggiore attenzione, anche un passante noterebbe una certa anomala assenza di empatia, una impermeabilità al dolore degli altri, forse innata, più probabilmente sviluppata nel laboratorio segreto, nascosto nelle foreste del Maine, che è la loro fonte di reddito e la loro ragione di vita. Sono le donne e gli uomini che dirigono e fanno funzionare l’Istituto.
IN QUEI DUE EDIFICI, dei quali il popolo americano non sa nulla, vengono portati i bambini dotati di caratteristiche speciali: telecinetici e telepati. Per lo più si tratta di poteri limitati, capita di rado che arrivi qualcuno davvero superdotato e non è questo il caso di Luke Ellis, protagonista dodicenne di L’Istituto (Sperling & Kupfer, pp. 565, euro 21.90, traduzione Luca Briasco), uno dei migliori romanzi in assoluto scritti dal maestro del Maine. Luke è un genio ma al team dell’Istituto del suo brillantissimo cervello non importa nulla. Lo rapiscono, eliminando come da consolidata prassi i genitori, non per la straordinaria intelligenza ma per i trascurabili poteri telecinetici.
NELLA PRIMA delle due case dell’Istituto quei poteri verranno per quanto possibile potenziati. Nella seconda, insieme a quelli degli altri ospiti del lager, saranno adoperati per indirizzare il corso della storia. I bambini saranno spremuti fino all’ultima goccia, ridotti a larve dementi, infine eliminati con il metodo messo a punto dai nazisti, primi a essersi dedicati allo studio e all’utilizzo di quei poteri: i forni crematori. Forse era inevitabile che Stephen King, il migliore in campo nel descrivere gli orrori reali camuffandoli da horror fantastici, arrivasse a fare i conti con il massimo orrore partorito dalla realtà, lo sterminio nazista.
La discendenza dell’Istituto da Auschwitz è esplicita. Non solo perché gli esperimenti che hanno portato poi, già negli anni ’50, alla fondazione del laboratorio del Maine e di molti altri erano iniziati proprio nel lager polacco. Soprattutto perché identico è il procedimento con cui gli aguzzini, negando ogni dignità umana alle loro vittime, sacrificano anche la loro. Si trasformano in mostri possibili e reali, peggiori di qualsiasi aberrazione la fantasia di uno scrittore possa inventare.
LUKE SOMIGLIA molto ai bambini disgraziati e dotati che popolano la prima fase della produzione dello scrittore di Bangor. I compagni di sventura che incontra nella Prima Casa hanno molto a che vedere con i Losers di It. Ma l’attenzione dei lettori, come quella dell’autore, è destinata a concentrarsi soprattutto sugli antagonisti, sul plotone di dirigenti, agenti della sicurezza, operatori a vario titolo e scienziati che gestiscono il lager. La domanda che innesca il plot è «Come farà il protagonista a salvarsi?», ma quella che anima il libro è il quesito irrisolto sin da quando, il 27 gennaio 1945, l’Armata rossa si trovò di fronte all’atrocità inimmaginabile di Auschwitz-Birkenau: «Come è stato possibile?». Interrogativo dal quale ne deriva un secondo, altrettanto inquietante, più attuale: «Potrebbe ripetersi, in forme diverse, quel che accadde allora?».
La risposta di King è che sì, potrebbe ripetersi. Si è anzi già probabilmente già ripetuto, sia pure secondo modelli meno macroscopici, più parcellizzati e diffusi. Mrs. Sigsby, direttrice autocratica dell’Istituto, il cinico capo della sicurezza Stackhouse, reduce dall’Iran e dall’Afghanistan, gli agenti e gli operatori che tengono in piedi il lager, gli abitanti dei Paesi vicini che qualcosa sospettano ma fingono di non vedere proprio come i polacchi che chiudevano gli occhi sui vagoni piombati, sono tutte figure verosimili. Qualcuno sfoga il proprio innato sadismo, qualcuno guarda allo stipendio o alla carriera. Molti si limitano a fare il loro lavoro con la ferocia ottusa dei burocrati. C’è chi non riesce a reprimere attimi di empatia ma li seda subito perché ormai troppo coinvolto. Tutti sviluppano una sorta di armatura che li protegge dal prendere coscienza del male che fanno.
PERÒ KING sa che la spiegazione non può essere l’abusata «banalità del male». C’è di più. C’è un indicibile che pochi osano riconoscere quando si parla dello sterminio nazista: la convinzione, radicata in alcuni se non in tutti e certamente nei principali responsabili, di stare assolvendo a un dovere, di stare facendo il bene. Per una parte essenziale dell’apparato nazista, quell’atrocità era necessaria «per salvare la Germania», proprio come per Mrs. Sigsby, e per i suoi capi di Washington, il sacrificio di migliaia di bambini, le torture inflitte per svilupparne i poteri, la loro riduzione a vegetali sono giustificati da un’esigenza superiore: «Salvare il mondo dalla distruzione».
Stephen King è sottile e onesto a sufficienza per riconoscere che, a differenza dei loro antenati con la svastica, i kapò del Maine potrebbero avere ragione. La salvezza del mondo potrebbe davvero dipendere dalla disponibilità a sacrificare migliaia di innocenti. È improbabile, non impossibile. Ma se i suoi personaggi esitano di fronte a questa consapevolezza, chi li ha creati non dubita mai. Resta convinto dalla prima all’ultima riga che niente, neppure il rischio di far finire il mondo, valga l’annientamento dell’anima di chi lo abita.

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