INTERNAZIONALE

«Così iniziò il golpe l’11 settembre 1973»

Gli agguati dei soldati, la latitanza, la fuga a Parigi: 46 anni dopo il racconto di Maria Inés Bussi, nipote del presidente cileno Allende
ELENA BASSOcile/Santiago

L’11 settembre del 1973 il palazzo della Moneda a Santiago del Cile viene attaccato: i militari sono insorti per tentare un colpo di stato e rovesciare il governo socialista di Salvador Allende. Dentro al palazzo si asserragliano 70 uomini per proteggere la vita del presidente e le immagini di quelle ore vengono trasmesse in tutto il mondo: i carri armati invadono le strade di Santiago, lo Stadio nazionale viene trasformato in un vero e proprio campo di concentramento e i rifugiati si accalcano nei giardini delle ambasciate. L’assalto è feroce e Allende si suicida con un colpo di pistola. I combattenti della Moneda vengono arrestati, torturati e uccisi e il Cile dà inizio ai più cupi dei suoi anni sotto il torchio della feroce dittatura militare guidata dal generale Augusto Pinochet.
Ma cosa succede quel giorno a chi è vicino al presidente? Cosa succede alla sua famiglia? Fuori dalla Moneda, c’è Inés, 26 anni, nipote prediletta del presidente. Quella ragazza si è trasformata oggi in un’elegante signora: si chiama Maria Inés Bussi. Alta, slanciata, chignon biondo e grandi occhi blu, Inés si muove con un portamento fiero, mentre decide per la prima volta di raccontare la sua storia: «Quella mattina ero a casa con il mio compagno, che era un dirigente politico. Riceve una telefonata, si gira e mi dice: “La Marina si è sollevata a Valparaiso. Il golpe è cominciato”. Ed ecco, così è iniziato tutto».
Eri la nipote del presidente e il tuo compagno era un importante dirigente del Mir (Movimento della sinistra rivoluzionaria). Tu stessa aiutavi Miguel Enríquez – capo del Mir – e per tanti anni hai vissuto a casa di tuo zio, il presidente Allende. Sicuramente eri in cima alla lista di persone da sequestrare l’11 settembre. Cosa ricordi di quel giorno?
Quella mattina non sapevo cosa fare, come muovermi. Era ovvio che i militari sarebbero venuti a prendermi. Ricordo che quel giorno ho lasciato mia figlia dai miei genitori e mi sono nascosta a casa di una collega. Nel pomeriggio, probabilmente non capendo ancora la pericolosità della situazione in cui ci trovavamo, sono tornata a casa mia per controllare se i militari fossero passati. La porta d’ingresso era di pesante legno nero e aprendola ho sentito un rumore strano: come se fosse scattato un congegno. Mi sono fermata, ho richiuso la porta e sono scappata in giardino attraverso un passaggio nascosto. Da lì ho visto i militari che correvano verso casa mia con la mitraglietta in mano. L’avevo scampata per un soffio. Incurante del pericolo, sono andata subito a casa dei miei genitori per vedere mia figlia, ma appena entrata mio padre mi è corso incontro intimandomi di scappare. Il mio capo li aveva chiamati: i militari erano passati dal mio ufficio per sequestrarmi. La casa dei miei genitori non era più un luogo sicuro. Era solo l’inizio.
Come hai fatto a salvarti?
Il giorno dopo sono andata alle Nazioni unite, dove lavoravo, per cercare aiuto. Ma sotto all’ufficio c’era un camion che mi era familiare: era lo stesso che il giorno prima era appostato sotto casa mia. Un colpo di pistola è partito da quel furgone. Era finita. Mi avevano vista. L’unico pensiero che avevo in testa in quel momento era che non volevo morire così, davanti a loro, senza poter fare nulla. Ho mantenuto il sangue freddo e ho continuato a camminare. Sono riuscita a scappare: proprio in quel momento è passato un alto funzionario in auto che mi ha fatto salire e mi ha portata in salvo. Di nuovo, mi ero salvata per un pelo. Da quel momento tutti i miei colleghi delle Nazioni unite si sono mobilitati per aiutarmi e hanno chiesto a una donna di nome Margarita, all’epoca amante di uno degli avvocati di Pinochet, di nascondermi nel suo appartamento. Nessuno l’avrebbe mai perquisito. Ricordo che dentro a quella casa avevo un solo divieto: non potevo aprire gli armadi. Un giorno ho disobbedito e li ho aperti, straripavano di tutto il cibo che non si trovava più in commercio. Sono stati giorni terribili, volevo scappare da quella casa ma non potevo fare nulla. Dopo qualche tempo si è scoperto che un collega francese aveva una moglie che mi somigliava molto. Così sono riuscita a entrare nell’ambasciata francese con il suo passaporto e due mesi dopo sono salita su un aereo diretto a Parigi. Di quei giorni ho un ricordo particolare, la madre di una mia collega ascoltando la figlia che le raccontava la mia storia, mi ha guardata e ha detto stupita: «Ma no, ci deve essere uno sbaglio. Guardala, ha gli occhi azzurri. Non può essere una comunista!».
Come sono stati i due mesi trascorsi nell’ambasciata francese?
Mi sentivo già prigioniera: anche se ero dentro a un’ambasciata ero sicura che mi avrebbero presa. I militari ovviamente non volevano rilasciare i documenti per far scappare la nipote di Allende. E così tutti i giorni in quei due mesi ho fatto un esercizio: cancellare la memoria. Mi sono sforzata di cancellare i volti e i nomi di tutte le persone che avevo visto a casa di mio zio. La mia più grande paura era di far catturare qualcuno che conoscevo: volevo solo dimenticare tutti quelli che avevo conosciuto. Per fortuna dopo due mesi sono riuscita a salire con mia figlia su un aereo per Parigi. Sono potuta tornare in Cile solo dopo 13 anni, tre mesi e 18 giorni.
A Parigi qual era la situazione per un rifugiato?
Lì ero l’ultima dei poveri, non riuscivo a trovare un lavoro e venivo trattata come un’anomalia perché ero una donna sola con una figlia. Avevo i soldi solo per comprare uno yogurt al giorno. Non scorderò mai un episodio in particolare. Mi trovavo all’università per chiedere una borsa di studio e la segretaria mi ha risposto con sdegno: «Ma guardi com’è elegante, sembra una modella, non si vergogna a chiedere una borsa di studio?». Lei dallo sportello non poteva certo vedere che tenevo per mano mia figlia e io non avevo ancora il coraggio di risponderle che avevo una bambina, che venivo da un Paese in cui era avvenuto un colpo di stato e che i militari mi avevano sequestrato la casa e tutto ciò che possedevo. Pensa che in quegli anni in Cile per dare dell’idiota a qualcuno si diceva «Sei più stupido di un soldato senza macchina». Ogni volta che c’era una perquisizione o un sequestro i militari erano liberi di appropriarsi di tutto ciò che trovavano, comprese le automobili. Quindi era sostanzialmente impossibile per un soldato non possedere almeno un’auto.
Hai detto che a Parigi eri un’anomalia perché eri una giovane donna sola con una bambina. Il tuo compagno dov’era?
Il mio compagno non poteva stare con noi, era dovuto rimanere in Cile. Lo hanno ammazzato il 15 ottobre 1975. A quel tempo io avevo trovato lavoro in Messico e quella mattina stavo leggendo seduta a un tavolino quando un uomo mi ha messo davanti un giornale che titolava «Ucciso uno dei principali leader del Mir». Così ho scoperto che il mio compagno era morto. Erano 5 fratelli: 4 sono stati uccisi dalla dittatura.
Anche tu eri una militante?
Non ero una militante, sono sempre voluta rimanere indipendente. Però aiutavo Miguel Enríquez, il capo assoluto del Mir, assassinato un anno prima del mio compagno. Io avevo un compito particolare: ero la copilota di Miguel. Dato che ero alta, bionda e con gli occhi azzurri quando io e Miguel eravamo in macchina sembravamo una giovane coppia di piccoli borghesi. Nessuno ci fermava mai e questo ci ha salvato da moltissimi pericoli. Ai militari sembravamo gente linda, non avevamo l’aspetto dei comunisti feroci, non rispecchiavamo la loro idea caricaturale di come dovevano apparire le persone di sinistra. E così aiutavo Miguel che in quanto capo del Mir doveva andare a incontri clandestini e portare messaggi da una parte all’altra della città. Io ero la sua copertura.
Prima di convivere con il tuo compagno hai abitato per molti anni a casa del presidente Allende, come mai?
Da giovane studiavo sociologia all’università del Cile. Ero molto brava e così sono stata scelta per andare a studiare per un periodo a New York. Dato che ero la nipote del presidente mi hanno reso le cose difficili: mi hanno mandata a vivere con una famiglia nera del Bronx negli anni della segregazione razziale e degli scontri più feroci. Alla fine del mio soggiorno dall’università e dal governo hanno cercato di corrompermi in tutti i modi per farmi rimanere a studiare a New York, ma non ne ho voluto sapere e ho preso l’aereo per Santiago. All’aeroporto ad aspettarmi non ho trovato i miei genitori, ma mio zio Salvador e sua moglie: mi hanno chiesto di andare a vivere con loro. Evidentemente avevo superato delle prove difficili, era il loro modo per premiarmi.
Come sono stati gli anni passati in quella casa?
È stato un periodo bellissimo: ne ho una grande nostalgia. All’inizio vivevo con gli zii e le tre cugine, poi loro tre si sono sposate e io sono rimasta «figlia unica», come diceva mio zio. Lui aveva moltissimo senso dell’humor, era una persona molto divertente nella vita di tutti i giorni. Era leggero di spirito. Portavo spesso i miei compagni di università a studiare a casa perché sapevo che erano curiosi di vedere la casa del presidente. E quando lui tornava e trovava la casa piena dei miei amici non si arrabbiava, si univa a noi e parlava con tutti. A volte, quando tornava, mi trovava a studiare nella sala da pranzo e ne era felicissimo. Mi diceva: «Inés, pensa che disgrazia per un padre quando un figlio non vuole studiare. A te invece studiare piace, eccome! E allora su, balliamo!». E mi prendeva la mano per ballare un tango, mi insegnava i passi e ridevamo. Era stupendo.
Quand’è stata l’ultima volta che hai visto tuo zio?
Il sabato prima del colpo di stato sono andata a trovarlo alla Moneda per chiedergli un’arma. Abitavo in un quartiere di destra e i vicini sapevano che ero la nipote del presidente, venivano da me per spaventarmi. Così ho chiesto un’arma a mio zio che mi ha guardata, ha sorriso e mi ha detto: «Perché non torni di nuovo a vivere con noi?». È stata la sua unica risposta. Era molto serio, cercava di ritrovare il sorriso, ma era triste. Me ne sono andata via sicura che mi stesse nascondendo qualcosa: sicuramente già sapeva che si stava organizzando il colpo di stato. E in effetti era nell’aria, si poteva respirare. Spero di essere riuscita a spiegarvi quale fosse la situazione in Cile in quegli anni. Questa è stata la prima volta che ho raccontato nel dettaglio quello che è successo in quei giorni, finora non ero mai riuscita a farlo. Anche se Gabriel mi diceva sempre di raccontarglielo, che avremmo dovuto scrivere questa storia.
Gabriel chi?
Gabriel García Márquez.

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