VISIONI

Dopo la devastazione della guerrala salvezza è in un fragile abbraccio

«ATLANTIS» DI VALENTYN VASYANOVY A ORIZZONTI
LUIGI ABIUSIITALIA/VENEZIA

Se Orizzonti indica l’approssimarsi a scorci cinematografici più o meno distanti, prospettive di forme cinematografiche non omologhe, significanti per via di stili, allusioni, ellissi, montaggi del tempo, anche interni alla semplice sequenza – ciò che si è visto nel concorso principale grazie a Larrain e Marcello – allora Atlantis di Valentyn Vasyanovy è il film che legittima questa sezione, per il resto un po’ meno incisiva quest’anno, anche se all’inizio della Mostra, un film come Pelican Bood di Katrin Gebbe almeno praticava un interessante depistaggio dei generi, nell’arco che può andare dalla psicologia e sociologia fino alla parapsicologia, a prescindere poi dalla congruità del risultato finale.
DEL RESTO Vasyanovych è autore versatile, muovendosi tra scrittura, produzione, regia e fotografia (è stato il direttore della fotografia di un film abbastanza conosciuto anche in Italia quale The Tribe), cosa che lo porta all’uso consapevole dei materiali cinematografici a disposizione in favore di una forma mai virtuosistica, straordinariamente evocativa, creativa della storia, sedimentatasi proprio in forza di piani fissi, profondità di campo, piani sequenza che non possono non rimandare all’archetipo tarkovskiano già a partire dalla magnifica locandina ufficiale che incastona un abbraccio fragile e disperato ripreso ai raggi infrarossi.
È QUESTA volontà di Sergeij di trovare il proprio corrispettivo, come in uno specchio, nell’altro; l’abbraccio, la vicinanza emotiva, che muovono (anzi si dovrebbe dire «immobilizzano», visto l’uso della camera fissa) il cinema di Vasyanovych, che in effetti raggiunge il suo culmine nella scena dell’amplesso in un furgone (una delle scene più belle di tutta la mostra), mentre fuori diluvia: qui la regia, la fotografia e il montaggio sono affidati ai due corpi inerpicati uno sull’altro, ma soprattutto a Sergeij che ad un tratto, dopo l’amplesso, apre lo sportello del furgone mostrando lo squarcio piovoso, crepuscolare, in profondità di campo, tutto l’abbaglio dell’acqua che scroscia sul selciato e dal cielo slavato, che è una specie di apnea luminosa, di sgomento dopo quell’oscurità e quel vibrare di carni. Ma la macchina da presa era entrata nel furgone non da uno sportello o da un finestrino, ma attraverso il parabrezza grondante, anzi attraverso una goccia tremula che è come il passaggio, il tunnel che porta lo sguardo, in un falso movimento, dall’esterno all’interno. L’occhio era stato occluso dal diluvio, dalla marea sul vetro, perciò tutto appariva appannato, sfuocato, e allora nel tentativo di scrutare anche oltre le coltri, i manti, le cuti acquee, il regista ne aveva usato una particella per penetrare e rimettere tutto a fuoco, demandando poi a Sergeij di organizzare gli spazi lì dentro, di montarli, facendo esplodere il lacerto di mondo piovoso dalla parte opposta rispetto a quel primo pertugio, da cui la macchina da presa era entrata.
SI TRATTA di una sequenza che dichiara una precisa poetica, quella del fuoco, della sostanza delle cose, della prossemica, per cui tutto il furgone-alcova è corridoio di passaggio sulla stratificazione trascendente dell’immagine. Ogni inquadratura risponde a questa prossemica che apre, dilata, dettaglia i quadri: è vastità, tridimensionalità dell’immagine e devastazione (ruderi, rovine, le innumeri morti) a cui Sergeij decide di reagire esorcizzando la guerra, il rimbombo degli spari, il suicidio del suo amico fraterno. Ed ecco, contro la prima sequenza d’orrore all’inizio del film - una morte a raggi infrarossi, un corpo seppellito che perde il suo colore - l’abbraccio rossigno, a raggi infrarossi, che rileva il calore dei corpi nella stanza, e delle anime grondanti, alluvionate.

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