VISIONI

Il caso Dreyfus, una storia che non finisce mai

Polanski sarà in concorso con «J’accuse», film sul processo che sconvolse la Francia a fine ’800
EUGENIO RENZIITALIA/VENEZIA

Roman Polanski ha per la prima volta evocato pubblicamente l’idea di adattare l’affaire Dreyfus sette anni fa, al festival di Cannes. Il film che aveva in mente, un thriller di spionaggio, implica un budget che può affrontare solo una produzione internazionale, costruita intorno ad una star anglofona. E anche riunendo questi presupposti, la strada è in salita: di fatto, nessun film di finzione è mai stato realizzato su «l’affaire par excellence», ovvero l’affaire Dreyfus. Sette anni dopo, c’è riuscito. E all’arrivo, contro ogni attesa, si tratta di un film francese, con Louis Garrel nel ruolo del protagonista. Ma perché è così difficile fare un film su Dreyfus? Per rispondere a questa domanda bisogna affrontarne un’altra, ben più complessa: perché l’affaire Dreyfus è così importante?
PER PRIMA COSA, i fatti. Dreyfus è un ufficiale ebreo dello stato maggiore dell’esercito francese. E più precisamente di quella Repubblica, la terza, nata nel 1870 dalle ceneri del secondo Impero, in seguito al primo dei tre grandi conflitti che la Francia moderna ha avuto con la Germania. Ed è proprio per spionaggio con il nemico tedesco che Dreyfus è accusato e condannato alla fine del 1894. Due anni dopo, il capo dell’ufficio informazioni, tale Picquart, informa il suo superiore Boidreffre di possedere le prove dell’innocenza di Dreyfus e accusa un altro ufficiale, il maggiore Walsin-Esterahzy. Sei mesi dopo, Picquart è trasferito in Tunisia; ma ha avuto il tempo di avvertire alcuni politici influenti. Degli «intellettuali» (il termine comincia a prendere senso proprio intorno all’«affaire») cominciano a pubblicare degli articoli in cui chiedono, prove alla mano, la revisione del processo. Il J’accuse di Emile Zola, uscito nel giornale di Georges Clemanceau, è solo il più noto di una miriade di pamphlet pubblicati in quegli anni. Nascono i dreyfusards ai quali si contrappongono con violenza inaudita gli antidreyfusards. Il caso cresce e diventa una valanga che investe la Francia e rapidamente il mondo intero, che si schiera sia a livello dell’opinione, sia a livello delle nazioni con l’uno e con l’altro campo e che, nonostante la grazia concessa nel 1901, non si è mai veramente chiuso. La Francia ha continuato a dividersi tra innocentisti e colpevolisti.
INTORNO al caso si è rimodellata l’ideologia nazionalista che, innervata di sentimenti anti-democratici e antisemiti, passa dalla sinistra rivoluzionaria alla destra estrema. La figura di Dreyfus offre a questo processo sociale e culturale un simbolo e un terreno di scontro dal quale emerge un tipo nuovo di antisemitismo, l’antisemitismo politico, sul quale Hannah Arendt riflette nel capitolo de L’origine del Totalitarismo dedicato proprio all’affaire. Dreyfus è allora una sorta di anello di passaggio tra l’ottocento e il novecento. Non è un caso se il fenomeno che da lui prende nome costituisca uno dei temi di fondo del primo grande romanzo del Novecento: La Recherche du temps perdu. Le infinite distinzioni sociali di cui Proust espone le sottigliezze e la brutalità sono infatti rivelate attraverso l’apparire, accanto all’antica giudeofobia medievale di matrice cristiana, di cui è intriso un aristocratico come il baron de Charlus, del moderno antisemitismo borghese di un’Albertine o di un ebreo assimilato come Albert Bloch. A dispetto di tutti i cambiamenti storici e sociali, quella descrizione non ha poi perduto di attualità se, nei tweet in cui Donald Trump suggerisce alle deputate Ilan Omar e Rashida Tlaib di tornare al paese loro o di considerare gli ebrei che votano democratico come traditori della propria patria (sottointeso Israele) riecheggia la battuta di Charlus al narratore: «non capisco come gli antidreyfusard possano accusare di aver tradito una nazione, La Francia, alla quale non appartiene».
DREYFUS, in Francia, è questo e molto di più. Ma è anche molto di meno: una semplice persona che, per tutta la vita ha dovuto suo malgrado far da bandiera a lotte e idee molto al di sopra della sua testa e del suo cuore – e ancora nel 1931, trent’anni dopo la grazia, una rappresentazione dreyfusista a teatro è impedita da un’azione squadrista dell’Action Française, che il governo presieduto da Laval, futuro autore della collaborazione con l’occupante, lascia fare.
E SI CAPISCE bene come questa storia di un caso giudiziario che non finisce mai, e che dopo anni di quiete torna a suscitare odio e fanatismo faccia pensare alla vicenda dello stesso Polanski. Il quale vorrà senza dubbio colorare con il proprio vissuto e con il genio e l’ironia di cui è capace i personaggi dell’Affaire che del resto, come scrive Hannah Arendt, sembrano già di per sé usciti dalle pagine di Balzac: «Generali mossi dallo spirito di ceto, magistrati preoccupati esclusivamente dei contatti sociali, e infine Dreyfus, con le sue velleità di pavernu, che si vanta dei suoi soldi e delle sue conquiste».

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