CULTURA

Il ronzìo protettivo del frigo

«Kitchen» di Banana Yoshimoto: incontri e solitudini davanti a un «luogo-soglia», tra fornelli e futon
CLAUDIA BRUNOgiappone

Quando la traduzione italiana di Kitchen cominciò a invadere gli scaffali dei supermercati, tofu era solo una parola esotica e buffa. Nessuno avrebbe immaginato che a distanza di quasi trent’anni avremmo tutti, ben più di una volta, avuto a che fare con quella inconsistenza che i protagonisti della storia si ritrovavano di tanto in tanto sotto i denti.
La scrittura dell’autrice del piccolo volume – una ragazza di Tokyo allora poco più che ventenne che aveva scelto un nome insolito per presentarsi al pubblico, Banana – poteva forse apparire così a chi dopo mesi di file alla cassa a sbirciarne la copertina, sovrappensiero lo aveva lasciato scivolare sul nastro di gomma insieme a una fila di pomodori e tre pacchi di spaghetti.
C’ERA, IN QUEL MUCCHIETTO di pagine tenute inchiodate da una sola parola straniera, qualcosa di magnetico. Il corpicino ripetuto in serie della donna in miniatura vestita di bianco – capelli scuri di un taglio asimmetrico, mani nascoste dietro la schiena a coprire, chissà, una borsa ripiena di sedani – se ne stava come sotto vetro, sezionato, depositario di un segreto misteriosamente riproducibile.
«Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina», il romanzo iniziava così. Poi la prosa si faceva evanescente, si aveva l’impressione che le frasi evaporassero, la carta tratteneva un rimasuglio sminuzzato di fatti e di senso che due bacchette non sarebbero bastate ad afferrare. Nel romanzo morivano tutti ed era come se non fosse morto nessuno, i due protagonisti si aggrappavano l’una all’altro senza slanci – a patto di percorrere chilometri di notte pur di condividere un riso takeaway con sopra del maiale fritto. Chiamavano la solitudine solitudine, e la nostalgia nostalgia. I loro corpi non si toccavano neanche davanti a un piatto di ramen.
SEMBRAVA DI LEGGERE un cartone animato, e allo stesso tempo di non leggere niente. Mancava sempre qualcosa, e forse mancava il sale, la salsa di soia, un finale sufficiente a giustificare i milioni di copie vendute, gli adattamenti per il cinema e la televisione, il riconoscimento a cui quel titolo stava andando incontro a livello internazionale. La colpa era delle traduzioni, dell’autrice, della cultura di massa, di una generazione cresciuta a pane e manga che di Tokyo pensava di conoscere molto e invece non sapeva abbastanza.
SI TRATTAVA O NO del nuovo capolavoro giovanile della letteratura giapponese, o era la prima di una lunga serie di trovate facili destinate a ragazzine sensibili alle avvisaglie di una depressione globale? Ci furono diverse risposte, ma le domande probabilmente erano sbagliate. Una cucina di notte scintilla sempre davanti alla luce di un frigo, e alcune immagini, che ci piaccia o meno, sopravvivono anche alle trame scadenti. Le cucine di Kitchen esistono ancora nei sogni e nella realtà e fanno la loro parte mentre tutti dormono. Non sono semplicemente stanze di una casa, ma orologi che seguono un proprio andamento. In questi luoghi-soglia il tempo scorre regolare, goccia a goccia, poi si ferma.
È qui che la protagonista Mikage ricompone il puzzle di sé nel complicato tentativo di digerire un deserto pronto a trasformarsi in vertigine, la scomparsa dei suoi familiari. Ci si deve sentire così a scampare un’estinzione, un cataclisma: sfortunatamente ancora vivi e allo stesso tempo per fortuna appena nati, pronti a tutto – consapevoli che nel «susseguirsi delle notti e dei risvegli che verranno, uno dopo l’altro, anche questo momento diventerà un sogno». È qualcosa che, presto o tardi, capita a tutti. Non conta se saremo rimasti gli ultimi del nostro sangue, o semplicemente una sera non avremo più nessuno a cui telefonare: c’è una legge spietata, dice che anche nel peggiore dei casi dovremo comunque mangiare qualcosa.
Per Mikage si tratta di una data spartiacque, la prima volta in cui non ci sarà nessuno a prepararle niente. «Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola», si ripete prima di addormentarsi sopra a un futon, ai piedi del frigorifero. Una scena che potrebbe durare per sempre se Yuichi Tanabe, il ragazzo del negozio di fiori, non suonasse alla porta invitandola a trasferirsi nell’appartamento che condivide con Eriko, la sua madre trans – il padre biologico che, rimasto vedovo, ha intrapreso una inverosimile transizione. «Diventare donna è terribile, sai?», dirà una sera a Mikage che donna sta per diventare, a forza di fare i conti con i suoi mai più.
MIKAGE RINTRACCIA se stessa nell’andirivieni accidentato tra la sua vecchia cucina e quella dei Tanabe, nel ruotare ininterrotto delle asciugatrici dove ripone strofinacci da smacchiare, nel vapore che resta sospeso fuori dalle finestre. Il suo alfabeto ha la forma di scodelle e pavimenti verde chiaro, padelle in Silverstone e pelapatate, ma si trova da un’altra parte rispetto alla semiotica che Martha Rosler anni prima aveva elaborato sbattendo uno alla volta sopra a un ripiano gli strumenti di una routine opprimente – la «soggettività imbrigliata» amplificata dalle dimostrazioni televisive di Julia Child negli Stati Uniti degli anni ’60 e destinata a finire sottotraccia nei deliri dello show cooking contemporaneo. Nelle cucine di Yoshimoto ci si affida al ronzio protettivo di un frigorifero, ci si appoggia agli sportelli, il tavolo non c’è, a terra si sistemano cuscini e piccole zuppiere ricolme di minestre e insalate di cetrioli, il tè ha un’ombra verde che si riflette tremolante sulle superfici.
DAVANTI A UN UOVO in camicia affogato in un groviglio di noodles, appena prima di addentare un cubetto di tofu fritto o la pastella di una tempura, le persone incontrate per caso o per fatalità finiscono per assomigliare a un cane che avevamo e che adesso non esiste più, le centrifughe sembrano prodigi dell’anima, capaci di tirar fuori succhi da qualsiasi cosa. Ci sono bicchieri comprati per dono, in queste cucine, talmente «speciali» da far «salire le lacrime agli occhi». E ci sono lavelli di acciaio inossidabile eppure sempre da pulire per iniziare a schiarirsi le idee nei momenti di confusione. I pavimenti sono disseminati di pezzettini di verdura, di tanto in tanto un nuovo marchingegno viene sfilato da una grossa scatola. Se la stanza adibita alla cottura dei cibi ha sempre rappresentato lo spazio della segregazione già solo per il fatto di trovarsi separata dal resto della casa nelle planimetrie, qui coincide con un ambiente dai margini imprecisi, che sconfina verso un divano largo, davanti a un televisore, in prossimità di una porta d’ingresso.
IN CUCINE come queste non esistono breadwinner e angeli del focolare – che siano madri-padri, ragazzi tristi o ospiti inattesi, il piano cottura è alla portata di tutti. È davanti alle piastrelle ancora luccicanti, alle fiammelle dei fornelli appena accesi, che avviene l’incontro di solitudini, il recupero della memoria onirica, la presa in carico di sé. Le cucine di Kitchen hanno dimenticato l’oppressione, scintillano anche quando i fornelli sono sporchi di grasso e i coltelli arrugginiti. Sono l’anticamera dell’indipendenza, lontane anni luce dalla cucina dove April, in Revolutionary road, prepara una impeccabile colazione per Frank, suo marito, un attimo prima di procurarsi un aborto. Da quella in cui Laura Brown, in Le ore di Michael Cunningham, prova a fare una torta per il compleanno di Dan e non ci riesce.
Sembrano altrove persino rispetto alla cucina in cui la Dorothy di Rachel Ingalls tagliuzza avocado per un amante dalle sembianze di rana. Stavolta non c’è nessuno da servire e tutti sono rimasti orfani, la scelta è tra comporre un’altra lista della spesa o dimenticarsi di sé.

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