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Senza tetto né legge. La Tv dell’inferno

Ri-mediamo
VINCENZO VITAITALIA

Se si fa eccezione per qualche articolo, non pare che al momento susciti qualche interesse la rapida discesa nell’inferno televisivo della par condicio.
A vista d’occhio e di telecomando, durante i giorni di una crisi drammatica per la vita repubblicana, l’equilibrio delle e nelle presenze politiche sul piccolo schermo non solo è saltato.
Si è, bensì, rovesciato nel suo contrario. È diventato ovvio inondare il video di flussi spesso illimitati nel tempo di comizi e conferenze stampa senza contraddittorio o riequilibri adeguati.
Quando si racconterà la storia di questo periodo apparirà chiaro quanto ha pesato la televisione nella crescita dei consensi per Matteo Salvini. Non meno dei social e della ormai famosa «Bestia».
La differenza non è secondaria: i tweet e i post aizzano gli animi e aggregano gruppi, ma la comunicazione generalista varca i confini dei simpatizzanti o degli attivisti. Parla a mondi anche lontani e, soprattutto, definisce l’agenda delle priorità, spesso supposte più che reali: vedi il caso clamoroso dei migranti, moltiplicati per n volte nella rappresentazione mediatica. Si ingigantisce il leader leghista non solo facendolo apparire come una star, ma amplificando in modo abnorme i temi a lui congeniali: sicurezza, paura, caccia al diverso, sovranismo populista.

Si potrebbe dire che lo spirito della legge del 2000 è violato al di là di Salvini. A maggior ragione, dunque, il tema va riaperto prima che la prossima stagione assomigli alla lotta violenta e mortale descritta da un efficace film del 1975 di Norman Jewison «Rollerball», che immaginava un conflitto senza esclusione di colpi nel 2018. Appena un anno di errore. Ciò che inquieta ulteriormente è l’anomalia inedita della concomitanza tra la crisi di governo e la scadenza delle due istituzioni che hanno un rilievo cruciale nella fase pre-elettorale (breve, brevissima, media o lunga che sia): il Garante per la protezione dei dati personali e l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
L’ufficio per la privacy ha finito a giugno e, in virtù di un decreto di proroga del governo, andrà avanti fino al 7 ottobre.
L’Agcom è in mera prorogatio e chiuderà i battenti il 26 settembre. Sul tema delicato della par condicio e sul contrasto del mercato dei profili personali, come sull’odio in rete, si giocherà la correttezza democratica della fase politica in corso. Se già, ad esempio, il controllo e le sanzioni sulle violazioni «di antenna e di parola» è stato fragile e vacillante, con l’Autorità «dimezzata» tutto sarà definitivamente acqua fresca.

Così, il prezioso lavoro condotto dall’organismo presieduto da Antonello Soro sulla difesa della riservatezza e sulla trasparenza degli algoritmi rischia di essere travolto dai vari «Cambridge Analytica» che si aggirano nel villaggio globale.
È vero che sanzioni pecuniarie rilevanti sono state comminate a Facebook e Google negli Stati uniti e nell’Unione europea. Ma la posta in gioco è troppo alta per correre dei rischi che si potrebbero rivelare letali.
È realistico che le due Autorità vengano rielette nelle prossime settimane, in tale temperie? Assai improbabile. È indispensabile, allora, che si immagini una proroga della proroga attraverso, ovviamente, un apposito strumento normativo.
Non sarebbe certamente un fulgido esempio di estetica legislativa e, tuttavia, siamo in una situazione di per sé brutta se non orrenda.
Se vi sono soluzioni migliori, ben vengano. Subito, però. Ciò che non si può sopportare è lo slittamento dall’edificio democratico all’abisso dell’orgia mediatica.

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