CULTURA

Come lo sguardo della tecnologia plasma la nostra identità

SCAFFALE
DANIELE GAMBETTAITALIA

Uno dei più riusciti e celebri casi di automi evil - antagonisti - della storia del cinema è costituito esclusivamente da un occhio. «Hal 9000» è il super computer a bordo della nave spaziale Discovery 2001, che nel film Odissea nello Spazio di Kubrick (dal romanzo di Clarke) riesce a soggiogare, uno dopo l’altro, gli astronauti grazie alle sue capacità di visione alternative e differenti da quelle umane. Un occhio senza pupilla né iride, ma che tutto vede sulla sua nave perché tutto sente. Èd è il replicante Roy Batty (interpretato da Rutger Hauer, scomparso il 19 luglio scorso) nei suoi ultimi istanti di vita, a spiegare nel suo celeberrimo monologo in Blade Runner che a distinguere la sua razza dagli umani è innanzitutto una questione di vista («ho visto cose che voi umani...»).
Simone Arcagni, professore dell’università di Palermo, ha pubblicato per Einaudi L’occhio della macchina (pp.266, euro 20), un testo denso in cui si prova a raccontare l’importanza che la visione computazionale ha avuto e sta tutt’ora avendo nell’immaginario contemporaneo oltre che nei piani dello sviluppo delle nuove tecnologie.
UN CAPITOLO per ogni occhio (occhio computazionale, cibernetico, matematico, virtuale…), in ognuno dei quali molta attenzione viene dedicata alla tessitura di una genealogia storica dello sviluppo di tecnologie di computer vision, a partire dalla tesi di dottorato di Larry Roberts nel 1960 sulla possibilità di estrazione di informazioni geometriche in 3D a partire da poliedri in 2D.
La computer vision, oltre a condividere la fase storica, ha molto in comune con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, in ciò che Arcagni considera un processo di «riontologizzazione».
Lo Human Brain Project è un tentativo di costruire da zero una simulazione del cervello umano per comprenderne il funzionamento. Un progetto che fin dalla sua nascita ha provocato critiche e perplessità, essendo contestata la possibilità di ottenere nuove informazioni sul cervello umano partendo da una sua simulazione. I Sessanta, come ricorda Arcagni, sono gli anni in cui si sviluppa il percettrone ideato da Rosenblatt nel ’57, un algoritmo spesso rappresentato come modello virtuale di un neurone biologico per la presenza di input e output, e che va a costituire la base delle moderne reti neurali artificiali di cui sempre più spesso sentiamo parlare. Ma sarebbe un errore pensare alle reti neurali artificiali come una riproduzione della mente umana, così come un occhio artificiale, per quando possiamo dire che è capace di vedere, non è certamente provvisto di cornea e retina.
CON UNO STIMOLANTE parallelo che chiama in causa lo sviluppo dell’aviazione, l’autore ricorda gli esperimenti fallimentari di Leonardo da Vinci per costruire velivoli efficienti a somiglianza della ali degli uccelli. Per riuscire a volare, vedere, far pensare la macchina, è necessario allora, citando Floridi con Arcagni, «una trasformazione di natura intrinseca di un sistema o di un artefatto, vale a dire la sua ontologia». E l’occhio, per il ruolo che riveste nella funzione biologica, è stato un soggetto centrale in questo processo di riontologizzazione.
L’occhio dei data è globale, vede come «Hal 9000», non per leggi meccaniche ma in quanto processo di raccolta ed elaborazione dati. Whendy Chun parla di una nuova dimensione umana, una nuova ontologia che ridefinisce anche la nostra identità e il nostro sentire, trasformato in un «essere aggiornati».
La suggestione che proviene da Arcagni fa parte di un dibattito attuale sempre più variegato e ibrido, su come e quanto i modelli immaginati dalla tecnologia plasmino la concezione stessa delle nostre forme di corpo e identità, sovvertendo sempre continuamente, a volte silenziosamente, l’ipotesi di una natura umana.

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