CULTURA

«I giovani radicalizzati? Vanno posti di fronte alle loro contraddizioni»

Parla la filosofa Marie-José Mondzain, autrice di un libro che contesta l’analisi ufficiale degli attentati di Parigi
ANNALISA ROMANIFRANCIA

Cosa si cela dietro al termine «radicalizzazione», utilizzato per definire coloro che si sono avvicinati ad esempio alle tesi dell’Isis? In Confiscation. Des mots des images et du temps. Pour une autre radicalité (Les liens qui libèrent, 2017), la filosofa Marie-José Mondzain ha offerta una serie di risposte a questo interrogativo, invitando a restituire un significato alla nozione di «radicalità» troppo spesso associata a «radicalizzazione», al fine di soffocare qualsiasi energia contestatrice nella società.
Il suo libro del 2017 ha rappresentato una sorta di reazione alle strategie di comunicazione ufficiali elaborate dopo gli attentati.
Esattamente, dopo gli attentati in Francia si è fatto subito ricorso a istituzioni poliziesche e medicali, come se la radicalità facesse riferimento alla punizione e alla guarigione. C’è stata una concezione direi «allergologica» della situazione. In seguito all’attacco alla redazione di Charlie Hebdo ho iniziato a incontrare, una volta a settimana per due anni, minorenni definiti «a rischio di radicalizzazione». Mi sono resa conto che non avevo a che fare con malati, né con criminali perversi. Si trattava soprattutto di giovani di fronte a un doppio bisogno, interessante nella sua contraddizione. Da un lato un bisogno epico d’eroismo, di esperienze esaltanti e senza limiti, e dall’altro il bisogno di autorità, di punti di rifermento. Le persone che li reclutano lo sanno e gli propongono l’esaltazione insieme a una disciplina di ferro. Si rivolgono sia a giovani in contesti di immigrazione e pauperizzazione che a giovani borghesi. La risposta non può essere «sei malato/a» o «quello che fai è sbagliato» perché queste ragazze e questi ragazzi, al contrario, hanno la sensazione di agire per il bene e di passarsela molto meglio della società da cui si estraniano. Il solo modo di avvicinarli è ascoltarli, per accompagnarli nelle zone di sofferenza e auto-contraddizione. La sfida è consistita perciò nel riuscire a ri-soggettivizzare: è stato fondamentale far toccare a ognuno di loro, singolarmente in piccoli gruppi, la propria radicalità, questo tesoro che custodivano nella loro richiesta di ideali e di legge. E lì non c’era niente da sopprimere ma al contrario da preservare, da nutrire in modo diverso, da canalizzare verso la forma del legame e non della rottura. In gioco vi è il riuscire a disinnescare quelle che io chiamo le «fobocrazie». Le economie terrorizzanti che si ripetono in continuazione.
Essere radicali, diceva Marx, vuol dire cogliere le cose alla radice. Mi sembra che non sia questo il senso in cui lei intende questa parola.
Ho lavorato sull’etimologia della radicalità per sottolineare fino a che punto la sensazione di assenza di radici renda questa «deradicalizzazione» una sorta di doppia pena. Come radicare nel reale qualcuno che è già perso, nella sua memoria culturale, ancestrale, cittadina? Lo Stato ha investito una quantità enorme di soldi in questi programmi e sono falliti, tutti. Ci sono pubblicazioni ufficiali di istituzioni create appositamente per deradicalizzare che ammettono di aver fallito. Non poteva essere altrimenti perché non era un atteggiamento di accoglimento di una sofferenza, ma di un’alternarsi di punizione e terapia. Questi giovani avrebbero dovuto e dovrebbero essere l’occasione di una messa in discussione della giustizia e delle pratiche terapeutiche nel pensiero politico attuale. Siamo a un impasse e se vogliamo sbloccare la situazione dobbiamo farlo insieme, altrimenti non si va avanti.
Nel suo testo lei contesta duramente, definendola un ossimoro, la nozione di «choc di culture» tra Oriente e Occidente. E ci invita a riflettere su che cosa sia la «cultura».
Non può esistere «choc» tra le culture, perché la cultura è ciò che mette in relazione gli essere umani su questa terra. Non c’è un’opposizione, ci sono differenze tra culture, così come ci sono differenze tra le lingue. Ma questo non significa che esistano lingue fatte per comunicare e altre per non comunicare. Tutte le culture sono costruzioni simboliche che tengono insieme dei gruppi in riferimento ad altri gruppi, direi sotto il segno dell’esogamia e dell’incontro, conflittuale o amoroso che sia. Personalmente riconosco un uomo o una donna colti dall’apertura del loro orizzonte. Non si è colti perché si è specialisti di qualcosa. «Choc di culture» è un discorso di guerra, inviato dagli Stati Uniti che dal 2001 pensano il mondo esclusivamente in termini di guerra.
E gli/le intellettuali? Qual è il loro ruolo, oggi, rispetto alla cultura e alla società?
Soffro molto del fatto che o sono mute e muti perché hanno paura di perdere il loro spazio di potere, oppure sono di un’eloquenza sfrenata, facendo finta di avere una risposta a tutto, a partire dal corpus che hanno scelto di praticare. Invece di essere i servitori attenti di tutte le energie sotterranee - le uniche secondo me in grado di cambiare le cose - pensano ad avere la propria parte di spettacolo. Il ruolo primario di un intellettuale è ascoltare. Prima di tutto il lessico del potere e fare molta attenzione a cosa diventa il linguaggio nelle mani dell’ordine dominante. In Francia sento troppi intellettuali parlare esattamente come i burocrati del potere. È poi necessario smetterla di parlare agli altri come se fossero imbecilli. Sono molto sensibile al lavoro fatto da Rancière sull’ascolto della voce operaia. C’è tanta verità lì, da restituire con dignità. Ci vuole molto coraggio, accettare di non essere mediatizzati, rifiutare le alleanze indegne e non imprigionare il reale nelle proprie categorie, ma crearne continuamente di nuove, a partire da quello che accade.

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