VISIONI

David Berman, poesie in forma di canzone per le anime perdute

È scomparso a 52 anni il leader dei Silver Jews, il loro ultimo album era uscito a luglio dopo 10 anni di silenzio
CECILIA ERMINIUSA

«No, non voglio morire davvero/Voglio solo morire nei tuoi occhi». E invece David Berman, leader dei Silver Jews, musicista e poeta, è morto lo scorso 7 agosto a 52 anni, come è stato annunciato da uno scarno post su Twitter della sua etichetta discografica. Si supponeva che andasse tutto bene: un album uscito a luglio, dopo dieci anni di silenzio, la voglia di andare in tour negli Stati Uniti, un dichiarato nuovo entusiasmo per il progetto solista denominato Purple Mountains ma, a cominciare dalle prime foto per la stampa, ci siamo resi conto che, probabilmente, qualcosa si era incrinato per sempre. Gli occhiali da sole coprivano gli occhi stanchi, i suoi capelli, lunghi fino al collo, sparuti e arruffati e un'espressione nel volto increspata e senza vita.
E, SCORRENDO fra i testi delle canzoni, era impossibile non allarmarsi di fronte a una tale, disperata nudità di sentimenti: in All My Happiness Is Gone «Confesso che a malapena resisto», in Margaritas at the Mall «Mi sveglio arrossendo/ Come se mi vergognassi di essere ancora vivo». Forse, tra gli infiniti problemi di droga, un’incurabile malattia mentale e la sua avversione ad accettare le regole del mercato, David Berman ha finito per praticare una sorta di auto-sabotaggio. Ancora nessun comunicato ufficiale sulle cause della morte ma il terribile sospetto di un suicidio oramai non può che farsi strada fra le pieghe dei tantissimi post dei suoi amici musicisti. Inoltre, pochi anni fa, Berman stesso aveva confessato che, nel 2003, aveva tentato il suicidio nella stessa stanza d’albergo di Nashville dove Al Gore era rimasto quando perse le elezioni contro George Bush Jr. «Voglio morire dove è morta la democrazia», così disse al ragazzo della hall. In un gesto non meno drammatico, Berman, a pochi mesi dallo scioglimento dei Silver Jews nel 2009, pubblicò uno scritto duro e straziante in cui confessò che suo padre, Richard Berman, era un avvocato repubblicano che lavorava per lobbisti anti-ambientalisti e fanatici sostenitori di armi. Per Berman, non aveva senso continuare una battaglia musicale «impotente» nel fermare il male che il padre aveva portato al mondo. Quel mondo, ormai invivibile, dove regnava la sfiducia nell'industria musicale, la condanna della «finzione», una forte tendenza all’isolamento e il bisogno tragico di purezza.
DAVID BERMAN aveva una rara capacità di dare un senso all’assurdità del comportamento umano, di rivelare con particolare intuizione l’oscurità che sta alla base delle nostre azioni, in un mondo in cui ognuno è diventato la propria macchina pubblicitaria, alterando con le sue parole, e in modo permanente, la nostra percezione delle cose. Il critico jazz Gary Giddins, scrivendo del lavoro di Ornette Coleman, una volta notò che «la musica colpisce in aree del cervello non protette, aree che rimangono crude e impressionabili», e David Berman era così, aveva un dono per la scrittura di cui, ironicamente e in modo molto «bermanista», è difficile parlare perché l’uso del linguaggio è così specifico che è davvero complesso trovare un modo per descriverlo che non diminuisca ciò che cercava di trasmettere.
ERA LA VOCE di una raccolta disparata di anime perdute, le nostre, e da oggi, grazie ai suoi testi/poesie, vedremo sempre i grattacieli della città come file frastagliate di chiavi di una macchina, il terreno oscillare al chiaro di luna, i bar degli aeroporti che sembrano sottomarini, e la manopola del rubinetto che sembra creare gioielli quando la si ruota.

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