CULTURA

«Lungo la Pedemontana», viaggio lento e letterario

SCAFFALE
MARCO DE VIDIITALIA/veneto

Come raccontare la Spv, la Superstrada Pedemontana Veneta, l’ennesima grande opera, ovviamente quanto mai urgente e fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese?
Paolo Malaguti, scrittore padovano (nel 2016 finalista al premio Strega con il romanzo storico La reliquia di Costantinopoli) sceglie di affrontare la questione abbandonandosi allo squilibrio più totale: una bicicletta inadeguata (in mano a un ciclista amatoriale) è il mezzo per avvicinarsi ai cantieri ancora silenziosi della nuova strada, un ulteriore tassello di progresso nel Veneto che è seconda regione italiana per consumo di suolo. Lungo la Pedemontana (Marsilio, pp. 217, euro 16) è il resoconto letterario di questo viaggio lento, in contrasto assoluto con quello che diventerà uno dei nuovi templi consacrati alla velocità, un percorso di una novantina di chilometri tra le province di Vicenza e Treviso.
NELLO ZAINO qualche libro, I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan, alcune poesie di Zanzotto, i racconti di Mario Rigoni Stern, i fragili appigli di un docente di lettere che cerca di fronteggiare l’impatto enorme, anche emotivo, dell’inarrestabile colata di cemento. L’ossessione del fare, del costruire, del demolire e ricominciare, pare un morbo ormai inguaribile, che ha contaminato in modo irreversibile un territorio avvelenato in profondità, ostile alla bellezza e alla natura, arido di idee e obiettivi comuni. Se non la fissazione per le nuove infrastrutture, che andranno a collegare nuove strade, nuove aree industriali, nuove zone residenziali.
«Non vedo colline, né campanili. Potrei essere ovunque e in nessun luogo. Forse l’unica cosa davvero importante qui è rimasta proprio la strada. Non è più uno strumento di comunicazione, ma il fine stesso dell’esistenza», scrive Malaguti. Il paesaggio ammirato da Goethe vicino ad Arzignano, il mondo descritto da Piovene nel suo Viaggio in Italia, sono in disfacimento, una grigia massa informe senza più identità o riferimenti (ecco, forse rispetto a questi cambiamenti l’autore è un po’ troppo indulgente). Una buona parte del cantiere è in trincea, nascosto sottoterra, mimetizzata per chi sta fuori.
IL NEMICO INVISIBILE pronto a violare il benessere di una terra «che ha deciso di esistere come società prima di tutto economica» è l’incubo quotidiano e inconsapevole dei molti che qui vivono come in stato di assedio. La speranza viene dai pochi eccentrici incontrati durante il viaggio, come l’ex studente diventato apicoltore, il bibliotecario di Malo che diffonde Meneghello, il cantastorie Otello, che incarnano una diversità reale, di vissuto e di valori. Ma attorno a loro i capannoni abbandonati ricordano troppo da vicino le macerie lasciate dai bombardamenti, la devastazione che segue la battaglia.
È suggestivo il parallelo tra le rovine post-industriali e le trincee (vere) della Grande Guerra, perché la miseria, la foga di uscire al più presto dalla povertà sono il «motore profondo della sete di benessere e dell’ansia costruttiva e ricostruttiva dei veneti delle scorse generazioni». Siamo in guerra, ininterrottamente, da allora. Solo che, come nel Deserto dei tartari di Buzzati, non sappiamo più contro chi.
La Pedemontana non è che l’ultima invenzione bellica, l’arma letale schierata contro il nulla (fino alla prossima trovata). Le vittime sono soprattutto l’ambiente, ormai compromesso e reso invivibile, e qualsiasi idea residua di collettività. A vincere, schei e i soliti visi tronfi, che non riescono più a mascherare il vuoto.

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