INTERNAZIONALE

Lotta al lavoro «straniero», i palestinesi reagiscono

PROTESTE IN LIBANO
MICHELE GIORGIOlibano/beirut

Non cessano le proteste dei palestinesi in Libano. Anche ieri in centinaia hanno manifestato nei loro campi profughi contro le misure restrittive decise dal governo che mettono a rischio le già rare opportunità di lavoro che hanno i rifugiati palestinesi, ora costretti a richiedere un regolare permesso. Dovranno mettersi in regola più di tutti gli imprenditori, a cominciare da quelli palestinesi che nei settori dell’agricoltura e dell’edilizia impiegano quasi esclusivamente i loro connazionali.
«LASCIATECI LAVORARE, lasciateci vivere», scandiscono da quattro giorni i palestinesi da Beirut a Tripoli, da Sidone a Tiro e nella valle della Bekaa, bruciando copertoni e rovesciando cassonetti dei rifiuti. Martedì ad Ein nel Hilwe (Sidone), il più grande dei campi in Libano, gli abitanti hanno urlato la loro rabbia ai militari libanesi di guardia. Altrettanto hanno fatto ieri quelli di Beddawi (Tripoli). A Sidone è intervenuto l’esercito per ripulire le strade e disperdere i manifestanti. Nuove proteste si attendono oggi e nei prossimi giorni.
DUE MESI FA il ministero del lavoro libanese ha avviato un piano per la lotta contro i «lavoratori stranieri» senza permesso, ossia i siriani e i palestinesi che un’occupazione possono trovarla solo a nero a causa della loro esclusione per legge da decine di lavori e da una serie di categorie professionali.
Nei giorni scorsi sono iniziate le ispezioni in varie città e migliaia di palestinesi temono ora di perdere il lavoro. Le imprese che impiegano manovali palestinesi o siriani «illegali» saranno chiuse e multate. L’ambasciatore dell’Olp a Beirut, Ashraf Dabbour, ha chiesto al governo libanese di esentare i palestinesi dalle nuove misure e Azzam al-Ahmad, uno dei principali dirigenti del partito Fatah, ha parlato di «passi indietro» rispetto ai progressi del 2010, anno in cui Beirut aveva ammorbidito le restrizioni al lavoro palestinese pur mantenendo il divieto a svolgere professioni come il medico e l’avvocato e a far parte della polizia. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha inviato una lettera al presidente Michel Aoun e al premier Saad Hariri per chiedere la sospensione immediata delle misure approvate.
RESPINGE LE ACCUSE il ministro del lavoro Kamel Abou Sleiman. Le ispezioni, sostiene, non hanno colpito i palestinesi. «Delle 550 violazioni registrate, solo due riguardavano compagnie di proprietà di palestinesi», ha detto assicurando la sua «vicinanza ai fratelli palestinesi». Intervistate da al Jazeera la ricercatrice palestinese Rana Makki ha parlato di misure «intrinsecamente razziste», mentre la giornalista Ilda Ghoussain di Al-Akhbar ha spiegato che la mossa del governo è rivolta principalmente contro i profughi siriani – un milione e mezzo in Libano – ma colpisce anche i rifugiati «storici», i palestinesi,
ALCUNI GIÀ LA CHIAMANO l’Intifada in Libano ma il paragone è improprio. Nel Paese dei cedri i palestinesi non si battono contro un’occupazione militare e per la libertà, come hanno fatto più volte contro Israele negli ultimi decenni. Protestano contro provvedimenti in sostanza non nuovi, ma che vengono inaspriti in evidente reazione ai tentativi americani di imporre a Beirut, attraverso presunti «piani di pace» e promesse di investimenti miliardari, la naturalizzazione dei profughi della Nakba, l’esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi nel 1948 sotto l’urto delle forze armate del neonato Stato di Israele.
A FINE GIUGNO il Libano ha boicottato e condannato con forza la conferenza economica convocata dagli Usa in Bahrain allo scopo proprio di aprire la strada all’integrazione piena dei rifugiati palestinesi nei paesi dove vivono da oltre 70 anni e di mettere fine al diritto al ritorno per i profughi nella terra d’origine, ora Israele.
Divisi su tutto gli schieramenti politici libanesi «8 Marzo», vicino alla Siria e all’Iran, e «14 Marzo», sostenuto invece da Stati uniti e Arabia saudita, il mese scorso hanno trovato uno raro momento di unità nazionale escludendo categoricamente qualsiasi ipotesi di naturalizzazione per i circa 475mila palestinesi registrati come profughi presso l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa. Si stima che solo 270mila di essi risiedano all’interno del paese.

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