POLITICA

La guerra di palazzo Chigi. Salvini provoca, Conte s’infuria

Alta tensione sull’onda del caso russo. Il ministro e Siri incontranole parti sociali al Viminale. Il premier: «Scorrettezza istituzionale»
ANDREA COLOMBOITALIA/ROMA

Più che il ponte di comando del governo gialloverde palazzo Chigi somiglia a uno di quei palazzi nei quali, nelle guerre civili, ci si spara da un piano all’altro. Tra Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte è faida aperta anche se il leghista, sornione, assicura di nutrire le migliori intenzioni. E’ pura finzione. La scelta di convocare le parti sociali al Viminale, ieri mattina, suonava come una sfida aperta alla premiership di Conte. L’essersi presentato con a fianco Armando Siri, l’ex sottosegretario costretto alle dimissioni proprio da Conte, è stato un tocco di perfidia. Il presidente del consiglio risponde per le rime, senza celare un’irritazione che ha ormai superato i livelli di guardia.
NELL’INCONTRO con i sindacati non ci sarebbe nulla da eccepire se Salvini li avesse convocati in una sede privata, in veste di leader della Lega. Invece lo fa al ministero dell’Interno, con tutta la coreografia del caso, e anche se assicura di non voler rubare la parte al premier è proprio quel che sta facendo. Tanto più che sfodera proposte, mette sul tavolo la Flat Tax, usa toni minacciosi: «Questa deve essere la manovra dei sì. Non tollereremmo nuovi no». Non pago detta i tempi: «Vorremmo che alla riapertura dei lavori, in settembre, fosse subito in discussione la manovra».
La messa in scena manda fuori dai gangheri non solo il premier ma anche i 5 Stelle, che premono per un’immediata replica. Conte non si fa pregare. Parla di «scorrettezza istituzionale». Ricorda che «i tempi li decide il presidente del Consiglio, sentito in primis il ministro dell’Economia». La presenza di Armando Siri è un coltello rigirato nella ferita aperta: «Se la logica è quella di un incontro governativo la sua presenza non ci sta bene». Salvini però è un muro di gomma. La sua tattica è snervare l’avversario, non affrontarlo apertamente. Dunque finge di concordare: «Ma certo che i tempi li detta Conte. Però prima si fa, meglio è». Quindi, già che ci si trova, riconvoca le parti sociali per i primi di agosto.
L’obiettivo del leader leghista non è solo affermare plasticamente l’immagine di una sua leadership a tutto campo sull’azione di governo. La pressione così esercitata mira a dribblare l’ostacolo rappresentato da palazzo Chigi imponendo le scelte che per lui sono irrinunciabili. La Flat Tax, le autonomie e prima ancora, entro la fine del mese, la Tav. Tutti fronti sui quali a frenare l’impeto leghista è stato sinora Conte.
In questo scontro a due cercano di inserirsi i 5S, decisi a uscire dall’afasia delle ultime settimane. Ma quella di Luigi Di Maio è una mossa scomposta, che oltrepassa i limiti dell’autolesionismo. Un comunicato in cui critica duramente non Salvini ma i sindacati, per aver partecipato a una riunione con Siri: «Se vogliono trattare con un indagato per corruzione ci comporteremo ci conseguenza. Hanno fatto una scelta di campo. La facciamo pure noi». Una posizione imbarazzante, che scatena le comprensibili ire dei sindacati e che rivela lo stato confusionale dal quale i 5S non riescono a uscire.
MA AL CENTRO dello scontro tra Salvini e Conte non c’è solo il clamoroso sgarbo istituzionale della riunione di ieri. C’è anche, forse persino più destabilizzante, quello sul caso Savoini. Il presidente del consiglio insiste: «Le nostre linee guida sono assoluta trasparenza. Tutte le sedi, in primis il Parlamento, sono giuste per onorare queste linee». Il leghista, pur essendo stato preavvertito, aveva già preso malissimo domenica il primo invito di Conte a riferire alle Camere sul «caso Metropol». Ieri lo ha di nuovo sbrigativamente respinto: «Non intendo parlare di soldi che non ho visto né chiesto». Anche in questo caso i 5 Stelle, stavolta tramite Alessandro Di Battista, si sforzano di entrare in partita: «Salvini il bugiardo è impegnato a mentire. La sua difesa è ridicola». Toni che probabilmente non hanno fatto alcun piacere a Di Maio, che è, sì, deciso a sfruttare l’occasione e vuole costringere il socio a presentarsi in Parlamento, ma preferirebbe evitare gli errori commessi nella campagna elettorale per le europee, tanto aggressiva nei confronti dell’alleato di governo quanto controproducente in termini di voti.
MA LA RESISTENZA di Salvini rappresenta in potenza un problema enorme. Sino a che a chiedere che il ministro riferisca in aula sono i leader di partito il rifiuto è tollerabile. Quando a insistere invano è il presidente del consiglio la faccenda diventa già molto più spinosa. Ma se a convocare il leghista fossero i presidenti delle Camere, cioè le istituzioni stesse, rifiutarsi di comparire equivarrebbe a innescare un crisi istituzionale di prima grandezza.

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