VISIONI

«Il ritratto negato», un monito contro i totalitarismi a venire

IN SALA L’ULTIMO FILM DI ANDRZEJ WAJDA
SILVANA SILVESTRIpolonia

Ha il valore di un testamento poetico l’ultimo film di Wajda uscito nell’anno della sua scomparsa (2016), candidato all’Oscar Powidoki che esce ora nelle sale con il titolo Il ritratto negato, dove si raccontano gli ultimi due anni di vita (1950-52) di un celebre artista polacco dell’avanguardia, Wladislaw Strzeminski, morto di stenti, disperazione e tubercolosi per non essersi voluto piegare ai dettami imposti dal realismo socialista.
È UNA DRAMMATICA vicenda che può fare da guida anche agli intellettuali contemporanei e a quelli polacchi in particolare perché anche se il film era già in preparazione prima delle ultime elezioni, si avvertiva già da tempo nel paese una pericolosa deriva. Pochi intellettuali come Wajda sono riusciti a mantenere un’olimpica sicurezza, da vero maestro, nei tempi difficili, la stessa che orgogliosamente mantiene anche l’artista (ma lui sarà sopraffatto dal sistema), famoso e celebre, fondatore del primo museo di arte moderna e dell’Accademia di Belle Arti di Lodz, con un rapporto di grande complicità con i suoi studenti, proprio come quello che aveva il regista ai tempi di Solidarnosc con i ragazzi del suo gruppo di produzione.
IL FILM infatti non può non far pensare anche alla stessa vicenda di Wajda (anche per la sua formazione come pittore), quando durante lo stato di guerra fu deposto dalla carica di presidente dei cineasti per il suo impegno politico a fianco degli operai in lotta. Ma Strzeminski vive all’epoca di Bierut, lo «Stalin polacco», a lui viene tolto l’insegnamento, radiato dall’associazione degli artisti e non può più lavorare.
Nel grigiore diffuso della città nordica il film si riempie di colori primari, scelti uno alla volta come nelle tavolozze degli artisti rivoluzionari: il rosso irrompe nella stanza mentre l’artista sta lavorando, stanno innalzando un gigantesco telone con l’immagine di Stalin (e non sarà il solo tocco di humour nero del film), il bianco abbagliante delle statue della moglie Katarzyna Kobro, celebre scultrice polacca, il blu dei fiori intinti nella tempera per renderle omaggio sulla sua tomba dopo una vita tormentata, il giallo delle sedie disposte nella Sala Neoplastica poi distrutta da squadristi.
Strzeminski porta i suoi allievi en plein air come faceva il giovane prete Wojtila, insegna il processo dello sguardo («un’azione che dura nel tempo»), spiega nelle sue lezioni il procedimento biologico del vero realismo. Quando noi lo vediamo in azione la sua autorevolezza è già consolidata, dopo aver fondato il gruppo costruttivista Blok nel ’23 e la teoria dell’Unismo. Scrive infine «La teoria della visione» aiutato dagli studenti che hanno recuperato una macchina da scrivere (pericoloso strumento nei paesi dell’est, soggetta a controllo). Ogni singolo elemento del film può mettere ancora in guardia per i totalitarismi a venire.
I DIRIGENTI culturali cercarono di fermare i grandiosi film di Wajda degli anni ’50, cercarono di far proiettare in periferia a Venezia il suo esordio, ci riprovarono in seguito con le sue sceneggiature che lui continuava a ripresentare e che ogni volta erano respinte (così accadde all’Uomo di marmo, realizzato solo dopo parecchi anni). Ma tra l’atteggiamento di Wajda e quello di Strzeminski esistono paralleli? Rispondeva a questa domanda un collaboratore storico del regista, il direttore della fotografia Pawel Edelman (Katyn, Pan Tadeusz, premio Oscar per Il Pianista): «Vorrei difendere Wajda dall’accusa di estremismo - dice Edelman - per me era estremo come artista, ma non era ideologico, era razionale nei confronti della politica cosa che lo collega a Walesa: voleva raggiungere degli obiettivi, non solo dimostrare delle idee».

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