CULTURA

«I miei plantoidi, robot che vogliono imitare le piante»

Parla la biologa Barbara Mazzolai che sarà premiata domenica a Spoleto
ANDREA CAPOCCIitalia/spoleto

Barbara Mazzolai dirige il centro di microbiorobotica dell’Istituto Italiano di Tecnologie di Pontedera, Pisa. Nel 2015 è stata inserita nella lista delle 25 scienziate «da conoscere» dal sito RoboHub e domenica 30 giugno la Fondazione Carla Fendi la premierà durante il festival dei Due Mondi di Spoleto insieme alla collega Cecilia Laschi. Ha raccontato le sue ricerche nel recente saggio La natura geniale (Longanesi, pp. 192, euro 18,00). La creazione più nota di Mazzolai è un «plantoide», un robot ispirato alle piante: siamo al confine tra biologia e ingegneria, in un settore chiamato «robotica bio-ispirata».
Barbara Mazzolai, di che si tratta?
È una branca della biomimetica, ci ispiriamo alla natura per capirne i principi e applicarli a scopo innovativo. Tantissime soluzioni già provengono da esempi naturali, anche se nell’uso quotidiano non ce ne rendiamo più conto. Pensiamo al velcro: lo usiamo tutti i giorni, dimenticando che fu inventato da un ingegnere svizzero, Georges de Mestral, incuriosito dagli uncini di una pianta attaccati inestricabilmente al pelo del suo cane. Li mise sotto il microscopio e nel 1952 brevettò il velcro.
Con la tecnologia si imita la natura anche per studiarla. Il fisico Richard Feynman diceva «non conosco ciò che non posso creare». È questo che spinge una biologa verso la robotica?
Possiamo usare i robot per studiare l’interazione degli organismi con il mondo reale, con il vantaggio di escludere variabili che negli esseri viventi sono ineliminabili, come paura o il dolore. In effetti, la robotica che incorpora la biologia per studiarla è la parte più interessante del nostro campo. Tanti dispositivi sembrano ispirati dalla natura ma non basta che un umanoide abbia due braccia e due gambe per essere «umano».
Oggi quale processo biologico vorrebbe riprodurre con la robotica?
Mi interessa comprendere la capacità di crescita indefinita che hanno le piante rampicanti, che permette loro di adattarsi a qualunque ambiente. Mi piacerebbe realizzare dei robot con la stessa caratteristica. Potremmo utilizzarli nell’esplorazione di ambienti estremi, o per salvare persone in situazioni per noi irraggiungibili. Un’altra facoltà delle piante rampicanti è la scelta del supporto. Amici mi chiedono: una pianta nel mio giardino ha fatto due metri nel vuoto per andare ad attaccarsi a un ombrellone. Come faceva a sapere che era lì, senza avere occhi? C’è ancora molto da scoprire in questo campo. Sappiamo che le piante percepiscono l’ambiente e prendono decisioni usando sensi diversi da quelli degli animali: sostanze chimiche, variazione della luce riflessa. Il mio progetto di ricerca «GrowBot» è dedicato proprio a queste tematiche.
Dai suoi studi emerge un’idea di intelligenza non localizzata, ma distribuita a livello di cellule, organismi e popolazioni. È così?
Dobbiamo staccarci da una concezione di intelligenza troppo legata al cervello, eccessivamente antropocentrica. Fortunatamente, ce ne stiamo allontanando perché persino nell’uomo l’intelligenza è distribuita. Nelle piante questo è molto evidente: le strategie di sopravvivenza sono decise al livello delle radici, di milioni di apici, e noi non siamo molto diversi. Trascuriamo spesso che altri organismi possono essere molto più complessi di noi. Un polpo ha otto braccia, coordinarle usando solo un cervello è troppo difficile, perciò molti neuroni sono distribuiti sulle estremità. Nelle piante sarebbe ancora più difficile controllare milioni di apici a partire da un unico cervello.
Anche i computer ora tendono a distribuire la potenza di calcolo.
Se ho tantissimi dati da elaborare, il singolo processore non basta più. Mi serve una rete, un «cloud». Le radici sottoterra formano proprio una rete che processa e condivide informazioni.
Le interessa il dibattito in corso sulla bioetica dei robot?
I dibattiti sono utili se non limitano il progresso e la conoscenza. Per ora i robot sono utilizzati solo in fabbrica, per pulire gli ambienti o per esplorare gli abissi. Ma sono comandati da lontano o comunque molto semplici. Lo scenario di assistenti domestici, in grado di capire gli umani in maniera empatica, è ancora lontanissimo. Il problema, semmai, è quello opposto: riusciremo mai a realizzare robot con queste caratteristiche? Non bisogna insegnare ai giovani la paura dei robot, perché la robotica a scuola è utilissima per comprendere la matematica, la fisica e la biologia in azione. Se ci riferiamo all’intelligenza artificiale, invece, la situazione è opposta: quella contenuta in uno smartphone, ad esempio, ci ha già cambiato la vita.
Nelle biotecnologie, spesso si brevettano meccanismi esistenti in natura, trasformando scoperte in invenzioni. Si chiama «biopirateria». Può succedere anche con la biomimetica?
Paradossalmente ne sarei felice, vorrebbe dire che avremmo realizzato delle scoperte. Ma per il momento ci limitiamo ad imitare la natura.

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