VISIONI

Solitudini e ossessioni di una commedia senza infingimenti

LA SECONDA STAGIONE SU AMAZON PRIME
LUIGI ABIUSIITALIA

Nel 2017, al momento della messa in onda della prima stagione-lampo (sei episodi di meno di mezzora ciascuno: serrati, nervosi, inquieti come la cappa luminosa, nuvolosa che trasuda dal contesto londinese) Fleabag raccolse in Italia un certo successo – e non solo tra gli amanti di un cinema smanceroso, alla Gerwig – che del resto faceva seguito a quello ben più clamoroso suscitato in Inghilterra già a partire dalla pièce teatrale da cui è tratta. Il che resta in filigrana nella trasposizione televisiva, anche della seconda stagione disponibile da poco su Amazon Prime: una teatralità della messa in scena che si traduce in concentrazione dello sguardo (della macchina da presa) e degli sguardi (del pubblico) sui personaggi e le loro sagome, le loro maschere, e sul processo di smascheramento dei volti, attuato per lo più dalla protagonista che osserva e svela con schiettezza beffarda o partecipazione, gli infingimenti, i tic e le miserie degli altri e di se stessa. È proprio questo autodenudamento che mette Fleabag al riparo dalla retorica e stucchevolezza di donne intente a sciorinare sul palcoscenico dei social network la propria intelligenza per via perennemente sarcastica, comica, tagliente, non svestendo mai questi panni in favore di un’autenticità che saprebbe di stoica adesione al rutilare e divenire del mondo.
CERTO Fleabag ammicca, fa smorfie ( uno sgranare d’orbite e sorrisi caustici), commenti pungenti diretti alla platea complice, atti a rivendicare la propria intelligenza proprio su un terreno – ad esempio il sesso, peraltro unico mezzo a disposizione per smorzare una solitudine totalizzante – in cui le donne per bieca tradizione (maschilista) mantenevano o erano costrette a mantenere un certo riserbo; eppure in alcuni momenti catartici lei si toglie questa maschera di arguta allegrezza e ironia, apparendo nudamente e seriamente senziente, desolata, dolente, oppressa dall’atmosfera macilenta della città, eppure luminosa e libera come il tramonto sovrastante. I personaggi che all’inizio sono presentati in un lampo, ben catafratti dei loro caratteri, con il passare del (poco) tempo si schiudono mostrando la pelle vibrante e grondante sotto la corazza. La prima a svelarsi è ovviamente Fleabag, già nel quarto episodio della prima serie, quando si ritrova a confessarsi di fronte a un impiegato di banca alle prese con la propria redenzione dalle colpe di molestatore: in questa che è forse la scena più intensa e lirica dell’intera serie Fleabag diviene se stessa, spogliata di tutta la sua gestica dinoccolata, marionettistica, che la schermisce dal mondo e dice «io vorrei solo piangere, continuamente».
E, LIBERATASI dalla maschera mordace, è questo momento di sincerità, di ritrovata adesione al campo lungo erbale e tramontante in cui si trova, e al lento frusciare del piano, che dà senso retroattivamente a tutta la sua recita esilarante. Allo stesso modo, nella seconda stagione, si rivelano le umanità (comprendendo miserie, egoismi, opportunismi), le indoli sottese di Claire, sua sorella, del marito di lei, del padre succube della nuova compagna, ai quali Fleabag non può che darsi, aprirsi, una volta uscita dalla scorza d’infingimento che la teneva e che era l’unico modo per espiare la colpa ed elaborare il lutto. Soprattutto nella prima stagione c’è un’oppressione, una trepida ossessione quasi dardenniana della ripresa, che sta addosso alla figura snella e sinuosamente goffa di Phoebe Waller-Bridge (sceneggiatrice oltre che protagonista), come una testimonianza - adombrata anche dalla luce in appassimento - di morte, di claustrofobia, a cui contribuisce il taglio delle inquadrature, mai in campo lungo, se non appunto nella catarsi con l’impiegato di banca, alle cui spalle s’apre un prato; mentre nella seconda stagione, più distesa e rasserenata, la confessione sarà addirittura ecclesiale, officiata da un prete in un confessionale.
LO STESSO, dotato di fede incrollabile, di cui Fleabag s’innamora e che per questo ha facoltà interdimensionale, quella di avvertire i momenti in cui lei si assenta per rivolgersi al pubblico al di qua dello schermo: è l’unico, oltre a Fleabag, a poter vivere questa dimensione di passaggio (metacinematografica, metateatrale) tra palcoscenico e platea; ed è l’unico che può avvertire l’essenza dell’amore, che è «orribile, doloroso, spaventoso; ti fa dubitare di te stesso, ti rende egoista, crudele e ti fa dire e fare cose che non faresti mai. È ciò che tutti vogliamo ed è un inferno quando lo abbiamo, quindi non è strano che non vogliamo affrontarlo da soli».

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