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Texas 1944: intensità pittorica di Burri

Divano
ALBERTO OLIVETTIusa/texas

Nel 1943 Alberto Burri ha ventotto anni. È ufficiale medico, in Libia, inquadrato nel X Battaglione Mussolini. L’8 di maggio viene fatto prigioniero in Tunisia. Nel luglio salpa da Casablanca alla volta di New York con altri tremila combattenti italiani. Burri viene internato nel campo di concentramento di Hereford, presso la città di Amarillo, nel Texas. Vi resterà fino al 1946. «Le mandrie di cavalli passavano più frequentemente all’orizzonte e l’erba cresciuta ai margini del campo era divenuta alta … Le rondini volavano basse sulla terra e qualche usignolo si posava a cantare sui fili tesi del reticolato … lento era l’ammassarsi dei prigionieri dei compounds tre e quattro dell’Hereford Camp … era il 9 maggio 1944 … il sole declinò lentamente, il crepuscolo dipinto a tinte violente … le sere divenivano sempre più lunghe e sempre più belli erano i tramonti … il rosso cupo di quel tramonto a strisce gialle e turchine e continuamente cangiante in infinite sfumature». Spigolo dalle pagine di Fascists’ Criminal Camp, pubblicato nel 1948, dove Roberto Mieville racconta di quella lunga prigionia nel grande campo di Hereford. Vi si trova anche Giuseppe Berto che ha scritto: «In effetti, in quello stesso recinto numero quattro in cui Burri diventò pittore, io diventai scrittore». A Hereford, infatti, Berto compie le prime prove di scrittura che lo porteranno alla composizione del suo romanzo d’esordio, Il cielo è rosso. Pubblicato nel 1947 da Longanesi, Il cielo è rosso riscuote un eccezionale, immediato successo, subito tradotto in dodici lingue: «arte scabra e nuda» la definisce Giovanni Bucci; «immune da adulterazione lirica», a giudizio di Giancarlo Vigorelli; una «prosa asciutta e dimessa», secondo Enrico Emanuelli. Scabra, nuda, asciutta, dimessa: una aggettivazione che, altrettanto bene, può valere per la ricerca pittorica di Burri negli anni di apprendistato a Hereford, a tener conto delle rarissime (quattro, cinque?) opere superstiti di quel periodo. Nel 1995, riguardo a quel suo dedicarsi allora alla pittura, ha dichiarato a Stefano Zorzi in Parola di Burri: «Dipingevo tutto il giorno. Era un modo per non pensare a tutto quello che mi stava intorno e alla guerra. Non feci altro che dipingere fino alla liberazione. E in questi anni capii che io ‘dovevo’ fare il pittore». E, significativamente, aggiunge: «I quadri fatti allora sono per me oggi validi come le mie ultime opere, né più né meno in termini di intensità pittorica. Ricordo che continuavo a cambiare soggetti, a dipingere nuovi quadri e a cambiarli ancora, un’infinità di volte. Questo è stato il mio vero inizio di pittore». La pittura, ha scritto Cesare Brandi, «dové per lui aprire una via totalmente diversa: come l’ingresso in uno specchio. In questo viaggio nel paese delle meraviglie Burri si metteva senza bagaglio. Eppure il più antico dipinto del tempo, che si sia riusciti a rintracciare, è terribilmente significativo per quello che era e doveva essere il futuro artista». Brandi allude a Paesaggio del 1944 (olio su tela, cm 45x60). Osserviamo una superficie variata di toni sul rosso che digradano dal porpora all’aranciato o, se vuoi, si fanno più intensi dall’arancio risalendo al porpora. Toni che fluttuano, attraversati da due modulazioni, l’una in giallo, l’altra in grigio violaceo. Hai poi, a rigare con delicatezza la superficie sul versante di sinistra, delle sottili linee di tenero verde. I tratti grigio violacei e quelli luminosi di giallo, sfioccano in continuità di tocco sulla pur variegata cromia dei rossi e degli arancioni. Si tratta del paesaggio texano di Hereford nella sua continuità di pianura e di cielo. Il ‘cielo rosso’ di Berto, «il rosso cupo di quel tramonto a strisce gialle e turchine e continuamente cangiante in infinite sfumature» di Mieville.
«Una specie di fiumara rossastra e giallastra» dice Brandi, «cielo e terra hanno lo stesso andamento ansimante e sinuoso». Paesaggio è, precisa Brandi, «una apparenza naturale che si disfà, e al suo posto si sostituisce come un moto interno al colore». In questo olio del 1944 Burri afferma un’esigenza perentoria che diverrà in lui inderogabile: restituire al colore la sua compiuta, integrale, esaustiva autonomia di materia.

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