ECONOMIA

Contro la delocalizzazione solo armi spuntate e tanta demagogia

LA GUERRA DI SOPRAVVIVENZA NEL SETTORE DEL «BIANCO» VIAGGIA A SUON DI FONDI REGIONALI
MASSIMO FRANCHIITALIA

A parole tutti la combattono. Nei fatti nessuno ci riesce. «Delocalizzazione» è diventata una parola comune nel mondo del lavoro dall’inizio degli anni duemila. Prima sono stati i nostri imprenditori a spostare le produzioni in Asia - il «compagno» Colaninno portò la Piaggio in Vietnam - poi è toccato a tante multinazionali scegliere il più vicino Est Europa, a cominciare con la 500 che Marchionne ha portato in Polonia a Tychy per finire con il piccolo Suv 500 L ora prodotto in Serbia a Kragujevac.
La delocalizzazione colpisce trasversalmente. Ma è nel settore che una volta si chiamava «bianco» che le multinazionali stanno trattando l’Italia come provincia dell’impero globale ed europeo.
SE PRIMA DELLE ELEZIONI del 2018 Carlo Calenda si inventò improvvisamente amico degli operai scoprendo la storia della Embraco (di proprietà proprio di Whirlpool) - la cui reindustrializzazione procede fin troppo a rilento con annesse denunce dei sindacati - La lotta per il mercato degli elettrodomestici nell’ex Belpaese ha mietuto vittime. L’Indesit dei Merloni è stata venduta dalla - assai litigiosa - famiglia marchigiana orfana del capostipite agli americani della Whirlpool nel 2014. Un acquisto - come sempre più spesso nel liberismo finanziarizzato - per far fuori un concorrente e inglobare la sua fetta di mercato.
Per convincere gli americani a non chiudere gli stabilimenti è partito il classico mercato delle vacche, la competizione fra regione. Se Di Maio computa 27 milioni di aiuti di stato alla Whirlpool, fra Marche e Campania la cifra va quanto meno raddoppiata.
Se le Marche hanno elargito centinaia di milioni sotto forma di sgravi, incentivi al prodotto e alla formazione per non far chiudere le storiche fabbriche nella zona di Fabriano, in Campania per salvare Napoli e Carinaro.
Whirlpool però ha chiuso un 2018 disastroso e così è arrivata l’idea di chiudere Napoli facendolo annunciare dall’ex direttore dello stabilimento campano - promosso a dirigente europeo - ai suoi stessi ex dipendenti.
Stessa cosa è avvenuta per la Electrolux, la concorrente svedese che andò in crisi quasi in contemporanea. Ora i conti sono in ordine ma per tenerli tali in Italia a partire dallo stabilimento di Susegana nel trevigiano si stanno imponendo turni massacranti: passare da due turni di otto ore giornaliere con riposo al sabato a tre turni di sei ore al giorno compreso il sabato.
OGNI MULTINAZIONALE IN CRISI oramai arriva al tavolo di crisi del Mise con la classica alternativa: o riesco a tagliare il costo del lavoro di tot oppure sono costretta a chiudere il tal stabilimento.
E la minaccia di togliere gli aiuti statali è un’arma spuntata perché se dal punto di vista giuridico la procedura è assai complicata e a rischio ricorsi (vincenti) dal punto di vista economico gli incentivi statali sono sempre in calo a causa dei tagli ai bilanci pubblici e risicati rispetto a quelli dei paesi dell’Est Europa, Ungheria - con la sua flat tax per le multinazionali - in testa.
Anche legare le produzioni ai marchi storici, come ha tentato di fare Di Maio al tempo della delocalizzazione della Pernigotti a Novi Ligure è assai difficile. Ma pare una strada più percorribile visto che sono i marchi del made in Italy l’unica ricchezza rimastaci.
I marchi sono però sono facilmente aggirabili. Prova ne sia l’ultima delocalizzazione in corso nel profondo Nord. E che riporta nuovamente a Electrolux.
All’Husqvarna - marchio svedese famoso per le moto da cross ed entrato da poco nell’orbita Electrolux - di Valmadrera (Lecco), la produzione di tosaerba Mc Culloch. Gli svedesi vogliono lasciare lì solo la commercializzazione di un altro marchio, Gardena Italia. Ma di questi lavoratori Di Maio non sa niente. Ma per fortuna i sindacati sono almeno riusciti ad ottenere la Cassa integrazione.

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