VISIONI

Oltre i codici della musica, ritmi notturni al Nos Primavera Sound

Erykah Badu, Steve Albini, Kate Tempest ospiti del festival portoghese
VALERIO CORZANIportogallo/porto

«A capital do Norte» ha voluto dare il benvenuto al pubblico del Nos Primavera Sound alla sua maniera: pioggia atlantica e un vento che sferzava a folate. Per fortuna la dimostrazione «identitaria» dal punto di vista metereologico ha avuto vita breve e solo il primo dei tre giorni di festival ha dovuto subire questo battesimo fatto di rasoiate gelide e gonfie d’acqua. Siamo arrivati all’ottava edizione della suntuosa succursale del più celebrato e stagionato Primavera Sound catalano. Un festival che si celebra ogni anno con una settimana di scarto rispetto a Barcellona e propone un cast quasi altrettanto ricco.
HA TROVATO casa da sempre nel Parque da Cidade, a pochi passi dal mare e dalla spiaggia di Matosinhos, meta privilegiata dei locali in cerca di «descanso», il termine portoghese che sta per «relax, polleggio, defaticamento». Un luogo perfetto che sa di erba e salsedine e accompagna gli itinerari delle migliaia di astanti che si disimpegnano tra le proposte dei quattro palchi ufficiali. Naturalmente, se non piove è meglio. Se non piove può capitare pure di assistere a una piccola magia che ha voluto regalare Steve Albini coi suoi Shellac nel pomeriggio conclusivo del festival. Albini è una leggenda rock e un aficionado del festival, e dopo aver imbambolato gli astanti venerdì sera con un set furioso e durissimo, ha deciso di replicare il giorno seguente mettendosi all’entrata coi suoi partner e la solita quota di amplificatori Marshall. Una sorta di «buskeraggio» hardcore che sfregiava con la distorsione della sua sei corde il flusso dei fan arrivati per osannare Jorge Ben ed Erykah Badu. Ma andiamo con ordine. Si accennava intanto alle proposte portoghesi che sono (per i non prevenuti) un vero e proprio valore aggiunto del festival di Porto. Il trip hop di Surma, i djset di Violet, Jackie e Photonz, il pop-rock della veterana Lena D’Agua, il rap scuro e claudicante di Allen Halloween sono proposte che è difficile intercettare fuori dalla west coast atlantica e che invece meritavano senz’altro un ascolto e una verifica live.
A PROPOSITO di rap il Nos Primavera Sound ne proponeva un paio dalle caratteristiche piuttosto anomale e, proprio per questo, molto interessanti. «Nata tempesta/nata vecchia/diventò giovane»: è uno dei versi declamati dalla britannica Kate Tempest nel suo mirabolante effluvio di versi (con poche rime) ad alto, altissimo contenuto poetico. Tempest (anche scrittrice, non perdetevi il suo ultimo libello pubblicato da E/O: Resta te stessa) è davvero un talento incredibile che unisce lirismo, crudezza e un background di basi e di suoni davvero sofisticato. Lo statunitense Danny Brown è altrettanto interessante. Il suo è stato definito post-hip hop e in effetti la definizione gli si addice perché il suo set sembra un teatrino farsesco con la vocina nasale che declama non sense e un deambulare sgraziato che manda in visibilio perfino i bambini. Sembra così voler sotterrare una volta per tutte le pose gangsta e i messaggi machisti, un po’ come ha fatto Rosalìa (seguendo una tattica molto più spettacolare e grossolana se vogliamo) con l’alveo culturale del flamenco. A proposito di ridefinizione dei codici, anche i Sons of Kemet - formidabile combo con quattro batterie, un basso tuba, un sax e un mc ospite - lavorano coraggiosamente al tramestio eversivo di un genere, il jazz, che oggi più che mai, ha bisogno di rivisitazioni coraggiose e irriverenti.
DOVREBBE prenderne nota la giovane Nubya Garcia che col suo quartetto ha dapprima accennato a un promettente mix reggae-jazz per poi ripiegare subito su atmosfere coltraniane molto più usuali e prevedibili. In ambito rock anche i Low, gli Stereolab, Jarvis Cocker e i già citati Shellac hanno fatto esattamente quello che ci si aspettava da loro. È però sempre qualcosa di rutilante, originale, farina creativa del loro sacco e in questi casi dunque, va bene così.
DISCORSO analogo anche per il carioca Jorge Ben (che aveva ricevuto una sorta di preambolo di grande caratura sonora su un altro palco, grazie all’esibizione del trio di São Paulo O Terno): ha un imprinting inconfondibile ed è un autore di razza che paga, per assurdo, il fatto di aver regalato al mondo alcune hit che vengono suonate maldestramente in ogni veglione di capodanno e in ogni carnevalata. Più complesso il discorso per le donzelle che facevano anche da headliners del festival lusitano e rappresentavano il range stilistico che potremmo genericamente definire nu-soul. Se Solange sembra pagare ancora una sorta di gigantismo produttivo che non la lascia libera di esprimere totalmente il proprio talento vocale e compositivo; se Neneh Cherry continua a mostrarsi dal vivo con un menù meno credibile e più confuso di quello che apparecchia in studio di registrazione; Erykah Badu è invece sempre una garanzia. È cioè una sciamana irresistibile, capace di partire con cinquanta minuti di ritardo in un festival scandito da orari cronometrici e capace altresì di soggiogare trenta, quarantamila persone con il suo carisma vocale, il suo bouquet di suoni retrofuturisti, il suo approccio alla tradizione afroamericana che sembra aver perfettamente somatizzato una riflessione illuminata di Gustav Mahler: «La tradizione è la conservazione del fuoco e non l’adorazione delle ceneri».

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