INCHIESTA

La rivoluzione dei giornali è no profit

LUCA CELADAUSA

Sullo sfondo di una crisi costituzionale in questi giorni sempre più profonda e di avvenimenti che per gravità giustificano un parallelo lecito con il Watergate, la crisi del giornalismo americano non conosce fine. La stampa che nell’impeachment di Nixon ebbe il momento di più fulgida gloria ricoprirebbe un ruolo quasi costituzionale nella patria del primo emendamento (a garanzia della libertà d’espressione) e fu invocata direttamente dai padri fondatori come un meccanismo ausiliare ma essenziale per completare l’equilibrio dei poteri politici della repubblica e garantire il pubblico scrutinio dei potenti.
NELL’ATTUALE CONTINGENZA i pronunciamenti jeffersoniani sul ruolo della libera stampa rischiano però di diventare poco più che accademici anacronismi. Non è forse casuale che l’involuzione delle democrazie occidentali, l’avvento delle bufalocrazie e i revival terrapiattisti, le amnesie storiche e le fortune politiche costruite sull’offuscamento e la disinformazione stiano coincidendo con la crisi della stampa. E che alla crisi fisiologica prodotta dalla diffusione di contenuti digitali e dal vuoto pubblicitario determinato dal monopolio delle piattaforme, si sommi l’assalto frontale del trumpismo ai giornalisti «nemici della patria».
Un tentativo di trovare una soluzione ad entrambi i problemi – la solvibilità dei giornali e la tutela dell’informazione come bene pubblico - è quello del Salt Lake Tribune, che ha annunciato di volersi reinventare come entità non profit. La svolta del giornale pubblicato da ben 148 anni nella capitale dello Utah, è il primo tentativo di un quotidiano tradizionale Usa di abbandonare il mondo del mercato tout court per abbracciare la sfera giuridica della «pubblica utilità», (un’operazione che necessita tuttavia del benestare preventivo dell’agenzia delle entrate, l’Irs).
L’IDEA IN SOSTANZA è quella di aggirare il problema della sopravvivenza economica e della concorrenza «impossibile» delle piattaforme social situando l’attività giornalistica al di fuori delle forze di mercato. Implica insomma un riavvicinamento alla concezione «fondante» dell’informazione come sfera di speciale interesse pubblico.
«Il Tribune è un bene comunitario cruciale, ed è giusto che diventi di pubblica proprietà», ha affermato Paul Hunstman, il facoltoso editore che ha acquistato la testata nel 2016, trovandosi immediatamente ad affrontare i problemi di ogni giornale: riduzione degli abbonamenti e collasso degli introiti pubblicitari. Solo lo scorso anno il Tribune aveva licenziato un terzo dei redattori (oggi il giornale impiega 60 giornalisti, nel 2011 erano 148). Huntsman ha affermato di avere preso la decisione dopo avere analizzato assieme ad esperti le migliori opzioni per mantenere in vita il giornale. «In tutta sincerità - ha proseguito - non ho mai preso in considerazione la prospettiva di chiudere. Non è per questo che ho comprato il giornale».
L’ORDINAMENTO FISCALE americano consente la possibilità di costituire associazioni o aziende non a scopo di lucro nell’ambito di «fini caritatevoli, religiosi, scientifici, educativi, letterari, legati alla pubblica sicurezza, allo sport o altrimenti filantropici». La petizione del Salt Lake Tribune si baserà prevedibilmente sulla funzione «educativa» dell’informazione.
Altri giornali hanno parzialmente sperimentato modelli non profit – il Guardian ad esempio ha affidato a una fondazione la gestione del proprio archivio. Negli Stati uniti il Tampa Bay Times è in parte di proprietà del Poynter Institute, un ente dedito alla formazione e all’aggiornamento giornalistico. Il Philadelphia Enquirer opera ancora come giornale commerciale ma è tecnicamente anch’esso di proprietà del Lenfest Institute for Journalism, una fondazione dedita allo «sviluppo di modelli sostenibili di giornalismo locale».
SE VERRÀ APPROVATO dall’Irs, il modello Tribune potrebbe essere un primo esempio di trasformazione integrale, attuabile forse anche da altri giornali. «Ho sempre pensato al Tribune come a un istituzione vitale per il nostro stato - sostiene Huntsman - simile alle biblioteche, agli ospedali e alle organizzazioni artistiche e culturali che arricchiscono le nostre vite e rispecchiano i comuni valori civici». «È imperativo che riusciamo a sopravviver - aggiunge la direttrice Jennifer Napier-Pierce - la società in cui operiamo risulterebbe gravemente impoverita dalla scomparsa nostra e del giornalismo indipendente». L’unico altro giornale pubblicato in Utah è il Deseret News, di proprietà della chiesa mormone.
Se riuscirà, l’operazione avvicinerebbe il giornale al modello Americano di finanziamento dell’arte o della scienza: sovvenzioni private provenienti in gran parte da fondazioni non profit a volte coordinate da enti pubblici (per esempio National Endowment for the Arts, National Institutes of Health, etc). Il Tribune potrebbe inoltre accettare finanziamenti per specifiche posizioni di redattori per un dato periodo di tempo, simile a ciò che avviene con gli endowment (sovvenzioni) privati per le cattedre accademiche.
IN AMBITO GIORNALISTICO il modello per ora più simile è probabilmente quello delle radio non commerciali che operano grazie alla Corporation for Public Broadcasting che amministra sia i modesti contributi federali che le donazioni private. Ma il grosso dei bilanci delle radio pubbliche proviene dalle sottoscrizioni degli ascoltatori. Il successo del modello non profit presuppone dunque sia l’esistenza di una rete di fondazioni che di una diffusa cultura della sottoscrizione diretta da parte degli utenti.
Sono ancora molte insomma le incognite, fra cui i potenziali conflitti di interesse, che potrebbero emergere. È prassi dei giornali americani ad esempio appoggiare candidati politici mediante endorsement elettorali ma le regole fiscali vieterebbero esplicitamente l’attività politica da parte di chi beneficia di sgravi fiscali («la nostra linea editoriale non sarà mai in vendita a potenziali sostenitori», assicura Huntsman).
SI TRATTA A OGNI MODO di un esperimento interessante sullo sfondo di un modello di mercato che per i giornali sembra definitivamente inceppato. E l’indicazione di una necessaria evoluzione di pensiero sul problema di editoria e informazione e della strategie di sopravvivenza democratica in era digitale.

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