CULTURA

Il cervello fa vita di società

Intervista al filosofo della scienza Corrado Sinigaglia, ospite al festival «Dialoghi sull’uomo» di Pistoia
ANDREA CAPOCCIitalia/pistoia

Corrado Sinigaglia insegna filosofia della scienza all’università di Milano, dopo un percorso di ricerca che lo ha portato in Belgio, all’École Normale di Parigi e all’università di Genova. Da anni, affianca agli studi filosofici una felicissima collaborazione con i neuroscienziati, e in particolar modo con Giacomo Rizzolatti, lo scopritore dei «neuroni specchio»: le cellule del cervello che ci permettono di riconoscere e imitare i gesti degli altri. Con Rizzolatti, Sinigaglia ha appena pubblicato Specchi nel cervello (Raffaello Cortina editore). Insieme interverranno al festival Dialoghi sull’uomo di Pistoia che inizieranno domani e dureranno fino a domenica 26.
Può spiegare le caratteristiche dei neuroni specchio?
Innanzitutto, è una grande scoperta italiana, realizzata all’inizio degli anni ’90 nei laboratori dell’università di Parma dal gruppo di Giacomo Rizzolatti studiando l’attività cerebrale del macachi. I ricercatori erano interessati a cosa succedeva nel cervello quando un macaco compiva un’azione (come afferrare una nocciolina), e quando guardava un’altra scimmia alle prese con la medesima azione. Sorprendentemente, gli scienziati scoprirono che alcuni neuroni legati al movimento si attivavano anche nel momento in cui il macaco vedeva una scimmia agire, e persino lo sperimentatore umano.
È una particolarità solo delle scimmie?
Non proprio: la stessa funzione è stata osservata anche nell’uomo e in altri animali. È un meccanismo molto efficiente dal punto di vista evolutivo, perché permette di «risparmiare»: usiamo le medesime risorse cerebrali sia per agire che per riconoscere l’azione dell’altro. Ma finché non lo si è osservato empiricamente era difficile immaginarlo, e a tutt’oggi sfida il senso comune. Il meccanismo funziona finché nell’altro osserviamo un’azione o un’emozione che anche noi siamo in grado di provare.
Possiamo fare un esempio che ci riguardi più da vicino?
Vedere una smorfia di disgusto ci fa provare lo stesso disgusto al di là di fattori di genere o culturali, anche se questi hanno una certa influenza. Chi suona uno strumento ad alto livello lo sa bene: quando un musicista guarda un altro «collega» suonare, è in grado di apprezzare un virtuosismo in un modo diverso da chi non è in grado di compiere lo stesso gesto. Una volta, per fare un esempio, durante una lezione mossi le mani mimando un accordo su un pianoforte. Un mio studente, pianista diplomato al conservatorio, mi stroncò subito: «prof, con quelle mani al massimo sta picchiando su una tastiera», mi apostrofò. Era in grado di riconoscere quel gesto e interpretarlo meglio di altri perché i suoi neuroni risuonavano con il mio gesto. Spiegò meglio di mille lezioni il meccanismo del neurone specchio. O ancora: come fa un maestro a insegnare a sciare? Scompone un’azione complessa in una serie di movimenti noti, anche esagerandoli. Serve a far risuonare i neuroni specchio pure in chi non sa sciare, ma è in grado di riconoscere i singoli gesti e imitarli.
È dunque la base biologica della cultura?
La scoperta dei neuroni specchio non consente di stabilire il primato della natura sulla cultura o viceversa. In realtà, innatismo e apprendimento, o natura e cultura, si influenzano a vicenda. Un cane, un macaco o un uomo mordono in modo molto simile, dal punto di vista biologico. I neuroni specchio si attivano in tutte e tre le specie quando osservano un’altra mordere. Ma se un cane abbaia, i nostri neuroni non risuonano perché non è un’azione che sappiamo compiere. Siamo programmati per rispecchiare le azioni degli altri, ma quello che rispecchiamo dipende da ciò che sappiamo fare. Dunque, più cose sappiamo fare e più siamo in grado di impararne.
Sembra una funzione tipica degli animali sociali...
La capacità di riconoscere lo stato di animo degli altri è prezioso evolutivamente: capire una sensazione di pericolo quando capita a qualcun altro può salvarti la vita. E infatti sappiamo è che è presente in ratti, pipistrelli, varie scimmie oltre all’uomo. Inizialmente si cercavano nei neuroni addetti alle funzioni motorie. Ma in una specie possono essere presenti funzioni primarie diverse, perciò i neuroni specchio possono attivarsi in corrispondenza di altre funzioni.
Non viviamo più nella giungla, però...
Spesso sottostimiamo la quantità di situazioni in cui siamo in grado rapidamente di rilevare l’informazione sui nostri vicini e di rielaborarla in termini di strategie di comportamento. Abbiamo una serie di modelli che ci predispongono a decodificare l’ambiente circostante e ciò che si allontana da questi modelli ci sorprende, ma senza un grande consumo di risorse e in tempi velocissimi.
Si attivano anche quando la percezione sensoriale delle azioni degli altri è mediata dalla tecnologia, o via Internet?
Non lo sappiamo ancora, studi sistematici non ce ne sono. E non sono sicuro che la tecnologia influenzi le funzioni primarie di cui parlavo. In ogni caso, non dobbiamo dare per scontato che la tecnologia ci allontani. Molta tecnologia che usiamo in realtà promuove la connessione tra individui. Ci sorprendiamo quando due adolescenti chattano pur trovandosi a pochi centimetri di distanza, ma non teniamo conto che probabilmente stanno partecipando a una conversazione coetanei.
Pur se pubblica su «Nature» e «Science», lei è un filosofo della scienza. Cosa ci fa in mezzo ai macachi e agli elettrodi?
Nel mio laboratorio all’università di Milano, per la verità, studiamo i comportamenti umani. Ma esistono molti modi di fare filosofia della scienza. Uno, quello classico, è l’analisi metodologica, e riguarda la distinzione tra ciò che è scienza e ciò che non lo è, o come lavorano gli scienziati. Io invece sono più interessato a passare il confine tra filosofia e scienza, pur conoscendo le regole distinte dei due campi. Da un lato, il lavoro filosofico è prezioso per le neuroscienze cognitive, perché introduce distinzioni che aiutano molto la ricerca scientifica. Dall’altro, utilizzare la scienza sperimentale per mettere in discussione assunti concettuali è altrettanto interessante per un filosofo. Dunque, dopo quindici anni in cui pratico entrambi i campi in momenti distinti, posso rralmente affermare che l’uno è rilevante per l’altro.
Ma, se devo dire la verità, la ragione più profonda che mi spinge a collaborare con i neuroscienziati ha ben poco a che fare con la filosofia. Mi diverto, è una sfida continua. La prima volta che entrai in un laboratorio mi guardavano come un marziano, e lo ero. Ho dovuto studiare a fondo le neuroscienze, e ho avuto la fortuna di farlo in Italia, dove in questo campo ci sono scienziati davvero eccellenti, e in generale un elevatissimo livello medio dei ricercatori. Questi scienziati mi hanno permesso di interagire con loro. Oggi è più facile, ma all’inizio è stata davvero dura.
E conoscere le neuroscienze la aiuta anche nella filosofia?
Mi aiuta nel lavoro filosofico. Quando i filosofi parlano di neuroscienze, tendono a fidarsi di ciò che leggono senza troppa critica, non essendo così interni alla ricerca. Io oggi riesco a fare la tara a ciò che leggo e posso riconoscere il «marketing» che c’è anche negli studi scientifici.

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