VISIONI

Abel Ferrara e quella seconda occasione di vita riconquistata, ma così difficile e fragile

«TOMMASO» EVENTO SPECIALE
GIULIA D’AGNOLO VALLANfrancia/cannes

Oggetto di una recente, meritatissima, retrospettiva completa al Museum of Modern Art di New York, Abel Ferrara è a Cannes con Tommaso, un film italiano, affascinante e introspettivo, curiosamente non lontano dalla vena dell’Almodovar di Dolor y gloria (uno dei titoli favoriti per Palma d’oro, a sentire l’establishment critico internazionale) e, paradossalmente, persino da quella dell’Eastwood di The Mule.
CERTO, contrariamente ad Almodovar, il nuovo film italiano di Ferrara non è in concorso, ma nella sezione Proiezioni speciali. Troppo «piccolo», probabilmente, per la vocazione grandiosa di questo festival. Ma se si tratta di un oggetto povero nel budget, l’elegante uso dello scope e della profondità di campo del direttore della fotografia Peter Zeitlinger, la bellezza dello sguardo su Roma (siamo sempre nel quartiere di Pazza Vittorio) e un’altra straordinaria performance di Willem Dafoe, riflettono una ricerca formale elegante (quasi una tensione verso il classicismo) - che colloca Tommaso su un piano diverso dal ciclo di documentari semiautobiografici a cui Ferrara ha lavorato negli ultimi anni e di cui questo lavoro sembra un po’ sia la continuazione che il superamento.
La «storia» è quella di un artista americano, Tommaso (Dafoe), che vive a Roma insieme alla giovane moglie Nikki (Cristina Chiriac, consorte del regista) e alla figlia di tre anni Dee Dee (Anna Ferrara, la loro bambina), al lavoro sulla sceneggiatura di un nuovo film da girarsi in Russia (dove Ferrara ha appena filmato Siberia).
CON UNO STUDIO affettivo sul dettaglio bellissimo e commovente, come quello che Antonio Banderas ha fatto sul corpo, i modi e la biografia di Almodovar in Dolor y gloria, Dafoe (attore talismano del regista italoamericano come Banderas lo è di quello spagnolo) «diventa» Abel davanti ai nostri occhi -il modo in cui cammina, l’abitudine di tirarsi su i pantaloni da dietro, di spalmarsi indietro i capelli, quel suo modo di andare a toccare il nervo delle cose, le smorfia imbarazzata o di dolore. Al centro di Tommaso è il quotidiano del protagonista - squarci del lavoro al film e, molto di più, la vita di famiglia, o almeno la versione di famiglia come lui immagina dovrebbe essere la sua, e che spesso si scontra con le esigenze di una compagna molto più giovane a cui piace essere lasciata in pace e che vive a sua volta le conseguenze di un’infanzia traumatica. Il passato di Tommaso - evocato negli incontri degli alcolisti anonimi che frequenta regolarmente - ci viene presentato come un’altra vita. Quella della droga (il set di un film a Miami, come quello di New Rose Hotel; Tommaso che crede di sognar di essere preso a pugni mentre sta succedendo sul serio, l’ospedale, il rehab che non gli servirà niente) e quella di un’altra famiglia («me ne sono andato da casa perché mi facevo quando la più piccola delle mie due figlie adottive aveva quattro anni. Mi ha chiesto: papà vai via perché faccio troppo rumore?»).
FERRARA attinge in modo esplicito alla sua autobiografia - cose che rende questo film particolarmente «caro» a chi la conosce un po’- ma poi va oltre. La tranquillità conquistata nella seconda chance che ci mostra -nuova vita, nuova famiglia, nuova città, nuova salute- è preziosa, difficile e fragilissima. Come quella di noi tutti. 
G.D.V.

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