CULTURA

Inci Eviner, un viaggio nel labirinto di vite sospese e ricordi incompleti

58/A BIENNALE DI ARTE A VENEZIA
ARIANNA DI GENOVAturchia/ITALIA/VENEZIA

«In questa strana architettura, l’esperienza fisica del pubblico è accompagnata da personaggi immaginari nei video e lo spettatore viene sradicato, diventando parte di una comunità eccentrica la cui memoria è stata cancellata. Il mio obiettivo è che il visitatore si trovi spiazzato, in bilico fra due situazioni: l’essere un ’io’ ma anche un ’noi’».
INCI EVINER è l’artista che rappresenta il padiglione nazionale della Turchia alla Biennale di Venezia 2019. Da anni nelle sue complesse «coreografie» mette in scena le derive del potere, indaga il ruolo femminile e gli azzardi della religione. Nella Sala d’Armi all’Arsenale il suo potente We, Elsewhere conduce a un deragliamento dei sensi e lo spettatore non può trovare una sua posizione solida nel mondo. Accade invece che sparizioni e riapparizioni lo circondino di fantasmi e lo inchiodino in un labirinto percettivo, rendendo scivolosa la sua stessa memoria. Organizzato dalla Instanbul Foundation for Culture and Arts, a cura di Zeynep Öz , il padiglione è frutto di un lavoro collettivo che coinvolge professionalità diverse come designers e artisti del suono, mentre nel prezioso libro che accompagna la mostra ci sono le parole dello scrittore Orhan Pamuk.
«SONO CONSAPEVOLE della situazione politica del mio paese e rispondo che l’arte può dare coraggio e cambiare le cose. È un ottimo strumento per capire cosa succede - afferma Eviner - Viviamo in un mondo in cui si verificano spostamenti di massa, dovuti a crudeltà, violenza e tumulti. Nel ben noto articolo di Hannah Arendt, We, Refugees, mi colpì moltissimo questo paragrafo: ’Abbiamo perso la nostra casa, che rappresenta la familiarità della vita quotidiana. Abbiamo perso la nostra occupazione, il che significa che non siamo più certi di essere utili in questo mondo, abbiamo perso la nostra lingua, il che significa la naturalezza dei comportamenti, la semplicità dei gesti, l’espressione inalterata dei sentimenti...’. Dal momento che, come dice Arendt, la percezione del genere umano è notevolmente cambiata, dobbiamo cercare una nuova definizione per l’umanità intera. Ho pensato di creare un dispositivo che rendesse visibile tutto ciò, rivelando come il sistema capitalista, le ideologie e il genere umano stesso stiano collaborando. We, Elsewhere, quindi, può considerarsi uno spazio operativo, aperto all’interazione. I video, che diventano elementi dell’installazione architettonica, interrompono il flusso della vita, lo sospendono. Gli elementi immaginari di questo dispositivo provengono da correnti sotterranee, si fruga dentro ricordi monchi. Lo spazio percorribile è pensato come fosse un labirinto con le sue inferriate di ferro e, proprio come una memoria incompleta, anche gli oggetti hanno parti mancanti. Vediamo poi una zona residenziale attrezzata con poltroncine e orinatoi, forse è una prigione, un campo o una mezza casa...».
IN QUESTO PAESAGGIO di solitudini e frammenti, Inci Eviner è un’artista totale che «piega» i mezzi del mestiere a una dimensione performativa e unisce più discipline per raccontare i numerosi dedali del pensiero da cui siamo abitati. «Sin da quando ero bambina - confessa - ho osservatola realtà e, disegnando, la ho trasformata. Quando ho iniziato a lavorare su We, Elsewhere, ho ripreso così i miei vecchi quaderni. Le idee erano ancora in formazione e i personaggi fantastici delle precedenti opere hanno cominciato a uscire dalla terra e a diffondersi. Cercavano i loro ricordi, erano stremati dall’oppressione e dalla ferocia, mutilati, camminavano ai margini, negli angoli e in stanze segrete. Il disegno è qualcosa che mi spinge costantemente a guardare il corpo e interpretare i suoi desideri e i suoi limiti perché quello cerco è nascosto dietro gli abiti e le identità. È per questo che lo voglio portare allo scoperto. Disegnare è un’attività che affonda nel subconscio, rimodellando il mondo visibile».
SE IL DISEGNO è un’arte antica, Eviner ha una grande dimestichezza anche con le nuove tecnologie, il cui utilizzo disinvolto - nel padiglione turco della Biennale - sottolinea il concetto che l’identità è una piattaforma multifocale, in cui alla stratificazione del vissuto risponde quella delle immagini in movimento, degli oggetti, dei disegni e le installazioni architettoniche e sonore. «Non posso dire di aver usato l’alta tecnologia, però mi piace molto infrangere i confini degli strumenti ’ordinari’ per conseguire un effetto che sconcerti».

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