VISIONI

Dietro le luci al neon la pianta che dispensa felicità e incertezze

Una storia che si interroga anche sui cambiamenti tra persone e sui confini della cosiddetta «normalità»
CRISTINA PICCINO francia/cannes

C’era una volta una sostanza molto pericolosa, la normalina, bastava ingoiarne qualche goccia per diventare «normali». Ma cosa significa «normali»? Diciamo obbedienti, pure se in modo involontario, a quanto un sistema sociale politico, economico, culturale richiede, consumatori perciò impossibili rivoluzionari – come ci dice Lech Kowalski. Dinni e la normalina (1978) è un magnifico film di Alberto Grifi in cui il regista mostrava – appunto – gli effetti della normalizzazione che sono poi quelli del controllo a cui solo la «follia militante» poteva opporsi. Chi cioè non accetta di infilare gli occhiali per vedere tutto il mondo uguale, chi cerca di sfuggire alle trappole oggi più insidiose nelle nuove forme della politica e delle «identità»: gli zombie, protagonisti di questo Festival di Cannes, anche se non sempre nel loro adattamento con la stessa potenza sovversiva che avevano in Romero.
PROBABILMENTE Jessica Hausner non conosce quel lavoro di Grifi, e la sua incursione nella «normalizzazione» al di là dell’aspetto collettivo mette in campo anche quelli che sono i cambiamenti individuali nei rapporti tra le persone. Rimane però che Little Joe, una pianta inventata da una giovane ricercatrice col potere di emanare un profumo che rende felici, si trasforma in una agguerrita arma di controllo che assoggetta le persone, fino a impossessarsi delle loro menti: li rende fedeli e suoi adoratori. Una follia? Chissà. Quell’aroma con polverina che si diffonde nelle radici di chi lo aspira, animali compresi, li trasforma in qualcun altro, qualcuno che all’improvviso si rivela estraneo a coloro che ha intorno, amici, genitori, anche la felicità ha diverse sfumature.
Hausner, austriaca, è una presenza abituale sulla Croisette – con Lourdes era stata in concorso alla Mostra di Venezia: si è rivelata qui, grazie al primo film premiato al Certain Regard, Lovely Rita, e poi è tornata, sempre al Certain Regard con Hotel (2004) e Amor fou – di nuovo premiato nel 2014. Il suo è un cinema che lavora sull’astrazione e sugli spazi, composti in geometrie di inquietudine e di spaesamento. Lo stesso accade qui dove le linee ordinate del laboratorio in cui Alice (Emily Beecham) svolge le sue ricerche per creare nuove forme di piante capaci di influenzare l’umore e le attitudini delle persone si oppone un caos invisibile, di cui si colgono i segnali in superficie, qualcosa che viene negato, che sembra una follia. E se invece fosse l’intuizione giusta?
Alice è separata dal marito, vive col figlio amatissimo e che l’adora, quasi adolescente, il padre preferisce la campagna ma il ragazzino pure se è spesso da solo in casa, o costretto a aspettare la mamma workaholic al laboratorio, preferisce stare con lei, con le loro cene quasi sempre di take-away, nella casa che somiglia a una cartolina vintage dai colori pastello. E gli piace pure il timido e goffo assistente della mamma, Chris (Ben Whishaw), li vedrebbe bene insieme le dice...
POI ACCADE qualcosa di imprevisto, il cane di una loro collega sparisce e quando torna non è più lui al punto che la donna lo fa sopprimere dopo essere stata morsa. Ma questo effetto lo dichiarano quasi tutti coloro che si sono offerti al test della pianta sulle sue possibili allergie: figlie che non riconoscono più le madri, mariti che vedono nelle mogli un’estranea. Anche Chris è cambiato all’improvviso, e così il giovane tecnico del laboratorio. E persino Joe non è più l’amorevole ragazzino di poco prima, appare estraneo e indifferente: «Sto crescendo non posso più dire tutto alla mamma» replica freddo prima di abbandonarla con la sua ragazzina, pure lei inquietante sguardo da aliena. La sola voce che cerca di rompere l’incantesimo è quella di una ricercatrice che tutti considerano un po’ pazza...
SE DA UNA PARTE, come dice Hausner, i mutamenti riguardano i gradi di conoscenza delle persone che si hanno accanto, e quei «distacchi», come nel caso del rapporto tra madre e figlio, che mettono in discussione le certezze, la storia interroga ancora una volta la posizione rispetto al mondo. Cosa si crede e cosa si vuole (fa comodo?) credere, un po’ come il miracolo nel suo precedente Lourdes (la cui tenitura era molto più coerente) , che quando accade può essere bello ma può contenere in sé conseguenze negative.
LA PIANTA dà la felicità ma quali possono essere i rischi a modificare la natura, distruggere l’ambiente, disseminare creature da laboratorio? E ancora quali sono i limiti del controllo, nella ricerca e sugli altri, anche coloro che si amano, e naturalmente su sé stessi? Hausner non offre soluzioni, ma tra le luci al neon che illuminano quelle piante, carnali e vagamente spaventose, lascia fluttuare gli interrogativi del presente, forse non sempre a fuoco in un punto di fuga in cui talvolta rischia di perdersi.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it