COMMENTO

Le culture politiche spagnole che il Pd non vuole vedere

Sinistra
ANTONIO FLORIDIAITALIA

A due settimane dal voto spagnolo, se è fin troppo scoperto il gioco delle parti tra Lega e M5S (facendo leva, tuttavia, su diversità reali che solo una disabitudine all’analisi può oscurare), da sinistra e dal centrosinistra emergono i segni di debolezza politica.
Una debolezza politica, che già aveva condotto al voto del 2018, e che l’anno trascorso non ha in alcun modo attenuato. Sorprendono in particolare le incongruenze della strategia con cui il Pd di Zingaretti sta affrontando la scadenza del voto europeo. E non ci si può non interrogare, tra l’altro, su un “mistero” politico: ma dov’era scritto che un personaggio come Calenda dovesse avere un tale rilievo? Su quali forze reali può contare questo? Chi rappresenta davvero? 
E’ evidente, e forse anche comprensibile, il senso dell’azione di Zingaretti, nei mesi successivi alla sua elezione: portare a casa un buon risultato, sulla base del quale cominciare ad affrontare tutti i nodi irrisolti, a partire dall’identità stessa e dal profilo che il “nuovo” Pd dovrebbe assumere. E tuttavia, se appare apprezzabile la scelta, in varie realtà locali, di aprirsi alla costruzione di coalizioni politiche plurali, il rinvio di ogni vera scelta sul piano politico e programmatico indebolisce in effetti radicalmente la posizione del partito e la sua stessa attrattività rispetto a fasce elettorali che lo avevano abbandonato e che non sembrano facilmente propense ad un ritorno a casa (come attestano anche i sondaggi, di fatto fermi, dopo un lieve recupero susseguente alle primarie). 
Se non si chiarisce da quale punto di vista ci si oppone al governo, è ben difficile sperare che si possano invertire tendenze profonde che si sono radicate nell’elettorato. La credibilità del Pd è ai minimi: sul lavoro, la povertà, la sicurezza, la scuola, il welfare, le pensioni…..in nome di che cosa si conduce la battaglia contro il governo? E da quale prospettiva ci si dichiara europeisti?
Ancora una volta emerge come il Pd sia un partito-equivoco, o un equivoco di partito: non solo incapace di definire un proprio profilo ideale e politico, ma – quel che è peggio - nell’impossibilità di definirne uno, pena la sua stessa implosione. Da questo punto di vista, una riprova clamorosa proviene dall’intervista con cui l’ex-premier Gentiloni ha commentato il voto spagnolo: da una parte si allude ad una sorta di doppiezza (“chi ha dipinto la sua vittoria come il successo dell’estrema sinistra non conosce bene Pedro Sanchez”), dall’altra – ed è molto grave – si auspica apertamente un’alleanza del Psoe con Ciudadanos.
Una palese e persistente miopia: in tal modo si mostra di ignorare che, se il Psoe ha potuto riprendersi, ciò è avvenuto grazie al fatto che Sanchez ha saputo tenere la barra, rispetto alle forti pressioni interne ed esterne, e ha evitato ogni tentazione di “grande coalizione” con i popolari (quella “grande coalizione” che sta affossando la Spd in Germania). E che ha provato a dare un rinnovato profilo socialista alla sua piattaforma programmatica, senza rincorrere il fantasma dei “moderati”.
Dal voto spagnolo, peraltro, emerge come vi sia una sola ricetta per frenare il risorgere di una destra populista: ridare forza, senso e visibilità all’asse destra-sinistra, proporre un profilo che sappia marcare differenze e alterità politiche.
Dalla Spagna arriva un’altra lezione, che possiamo definire come il “ritorno” delle tradizioni di cultura politica: dalle urne emerge un quadro in cui abbiamo una destra estrema nazionalista, una destra conservatrice, un centro neo-liberale, una sinistra socialdemocratica, una sinistra “radicale”, oltre alle forze autonomistiche. Anche il voto a Podemos, che a taluni è sembrato deludente, in realtà segna un passaggio positivo: si perdono consensi, rispetto alle elezioni del 2015, quando il profilo di Podemos era più trasversale, ma si consolida un notevole livello elettorale, oggi, con una più netta identità di sinistra e, soprattutto, con un’aperta rivendicazione del ruolo di governo che si vuole e si è in grado di esercitare. Chi continua a definire pigramente Podemos come una forza “populista” dovrebbe aggiornare il proprio armamentario concettuale.
E’ questo ritorno alle culture politiche con cui in Italia bisognerebbe fare i conti: in fondo, da noi, l’unica forza politica che mostra di essere in buona salute è la sola che mostra un preciso profilo ideologico. Per il resto, è il vuoto, o una gran confusione, o una grande fragilità, come mostrano le vicende di tutto ciò che si era mosso a sinistra del Pd.
Quanto al Pd, prima o poi bisogna che si sciolga quell’equivoco: si pensa ad un partito dal profilo vagamente “liberal” o ci si vuole ancorare ad una tradizione socialdemocratica, (che, come mostrano le vicende europee, è tutt’altro che esaurita, purché se ne sappiano rivendicare i tratti politici costitutivi e si sappiano praticare le necessarie innovazioni)? Il Pd come partito-contenitore post-ideologico, oramai è acclarato, non funziona: nel migliore dei casi, le varie identità presenti si elidono e si paralizzano a vicenda. Qualcuno è di troppo: prima se ne prende atto, meglio è per tutti.

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