CULTURA

Il terrore coloniale nato nelle trincee

Parla l’autore di «Fratelli d’anima» (Neri Pozza), domani al Salone di Torino
GUIDO CALDIRONsenegal/italia/torino

Nelle trincee della Grande guerra la frontiera tra umano e inumano si fa ogni giorno più tenue. Alfa Ndiaye e Mademba Diop, due degli oltre duecentomila fucilieri senegalesi che combattono nell’esercito francese scoprono ogni giorno un nuovo capitolo dell’orrore. Malgrado loro esitino, gli ufficiali li incitano a combattere con ferocia, a «ripulire» le retrovie avversarie a colpi di machete. Ma quando Mademba soccombe alle proprie ferite, Alfa si trasforma nel combattente spietato e selvaggio che la propaganda di Parigi vuole agitare contro il nemico tedesco. Non si limita a uccidere ma mozza sistematicamente le mani ai nemici morti, finché il suo rito di distruzione non comincia a spaventare anche i suoi commilitoni.
Docente di letteratura francese all’Università di Pau, nato a Parigi e cresciuto in Senegal, David Diop firma con Fratelli d’anima (Neri Pozza, pp. 122, ore 16), un romanzo di straordinaria intensità che raccontando la tragedia della guerra di trincea squarcia il velo d’oblio che ha circondato a lungo la drammatica epopea dei fucilieri africani. Candidato al Premio Strega Europeo, Diop è tra gli ospiti del Salone del Libro di Torino e presenterà il suo libro domani alle 16, 30 presso la Sala Internazionale insieme a Lara Ricci.
La vicenda di Alfa Ndiaye ci parla di molte cose, a cominciare dagli effetti della guerra di massa su un giovane delle campagne africane. Che memoria è rimasta in Francia e in Africa della partecipazione dei tiratori scelti senegalesi alla guerra di trincea?
Come scriveva il poeta Blaise Cendrars, la Prima guerra mondiale fu un «conflitto degno di una fabbrica», una macelleria organizzata e industriale: si trattava di schiacciare il nemico sotto milioni di bombe. Questo ha traumatizzato tutti i combattenti, e tra loro i soldati-contadini dell’Europa come dell’Africa che hanno visto il teatro dello scontro bellico arato da questi ordigni e non dai loro strumenti di lavoro. Dopo essere stato a lungo vivissimo e traumatico all’indomani del conflitto, ad esempio attraverso l’eco delle gesta dei soldati che al fronte avevano perso la ragione e non riusciranno più a reinserirsi nei loro villaggi, il ricordo della partecipazione dei tiratori senegalesi alla guerra di trincea si è via via sbiadito in Francia come in Africa occidentale. E questo, fino alla commemorazione del centenario della fine della guerra nel 2018 quando di questa vicenda si è tornato timidamente a parlare.
La deriva psicologica del protagonista interroga le retoriche coloniali dell’epoca: i combattenti africani venivano descritti come selvaggi cannibali per incutere paura ai tedeschi, ma quando Alfa si trasforma nell’incarnazione della «morte», come dice lui stesso, il terrore si impadronisce anche dei suoi commilitoni. Cosa è accaduto?
Il fatto che l’esercito francese avesse pianificato che nell’uniforme di alcuni battaglioni di fucilieri senegalesi fosse inclusa anche una custodia per il machete, faceva leva proprio sull’idea che questo avrebbe terrorizzato i soldati tedeschi ancor prima della battaglia. Questa strategia era basata su una rappresentazione condivisa all’epoca in tutta Europa, per la quel i neri erano selvaggi che avevano bisogno di essere civilizzati. In Fratelli d’anima, ho voluto in qualche modo contrappormi a questa propaganda in modo retrospettivo immaginando la figura di un soldato africano che diventa pian piano pienamente consapevole del ruolo che si voleva interpretasse. Per questo afferma di essersi trasformato né più né meno che nella «morte».
Questo tema sembra evocare il suo romanzo precedente, «1889, l’Attraction universelle» (L’Harmattan, 2012), che descrive la vicenda di una delegazione del Senegal all’Esposizione universale che il proprietario di un circo di Bordeaux cerca di far partecipare ad uno «spettacolo di negri». La Grande guerra trasportò nelle trincee l’orrore degli «zoo umani»?
Gli «zoo umani» fanno parte di un periodo storico nel quale l’Europa aveva bisogno di giustificare moralmente la colonizzazione dell’Africa e del resto del mondo attraverso i riferimenti alla sua cosiddetta «missione civilizzatrice». E anche il ruolo che si è cercato di far svolgere ai fucilieri senegalesi è entrato a far parte della logica di funzionamento dei grandi imperi coloniali europei. In qualche modo si tratta di due aspetti del medesimo fenomeno.
La generazione che tornò dalle trincee della Grande guerra rimase impregnata dell’odore di morte e sangue che aveva respirato così a lungo da essere pronta ad una nuova barbarie, come fu la genesi del fascismo in Europa. In questo senso, quale fu il destino di quei combattenti africani?
Furono presi tra due fuochi, tra due propagande altrettanto razziste l’una rispetto all’altra. Se l’esercito francese aveva schierato volontariamente i combattenti africani per cercare di terrorizzare il nemico, la propaganda tedesca non fu da meno e accusò Parigi di aver introdotto la barbarie in Europa attraverso la sua «armata di negri». E in seguito gli stessi tedeschi subirono come un ulteriore affronto il fatto che la Renania fosse occupata, nel 1920, proprio dalle truppe coloniali. Così, nella Seconda guerra mondiale i nazisti fecero pagare a caro prezzo ai fucilieri senegalesi il coraggio che avevano dimostrato in battaglia. Durante l’invasione della Francia nel giugno del 1940, molti soldati neri furono giustiziati appena catturati a causa del colore della loro pelle. Una delle grandi figure della resistenza francese, Jean Moulin, perse il suo posto di prefetto della regione dell’Eure et Loir nel 1940 per aver condannato questi massacri di fucilieri africani compiuti dai nazisti.
«Fratelli d’anima» si sviluppa intorno ad una lingua ipnotica che restituisce il delirio progressivo in cui sprofonda Alfa. A questo proposito lei cita spesso l’esempio del lavoro sul linguaggio compiuto da Ahmadou Kourouma, tra i protagonisti della letteratura africana contemporanea: in che modo ne ha ripreso il percorso?
L’ultimo romanzo di Ahmadou Kourouma, Allah non è mica obbligato (e/o, 2012) ha avuto un’influenza importante sul mio percorso. Il grande scrittore ivoriano è riuscito a forgiare la sua «lingua di scrittore» attraverso il francese, ma un francese al tempo stesso «infestato» da una lingua africana. Così, proprio come ha fatto lui, giocando sul ritmo della lingua francese, volevo in realtà far emergere come il mio personaggio non pensasse in realtà in francese, bensì nella sua lingua madre. Ed io sono soltanto il suo primo traduttore. Perciò, dietro il francese di Fratelli d’anima emerge un orizzonte culturale che è portato da un’altra lingua, il wolof che si parla in Senegal.
Il suo romanzo evoca il passato coloniale della Francia, ma fino a che punto si può dire che gli stereotipi e le rappresentazioni razziali citate non riguardino, sebbene sotto altre forme, anche il presente del Paese?
«O tempora, o mores!». La Francia non ha più bisogno delle rappresentazioni razziali che furono utilizzate quando stava costruendo il suo impero coloniale nel Diciannovesimo secolo. Ciò non impedisce che alcuni ambienti socio-politici estremisti, nostalgici dell’età coloniale, si sforzino di far risorgere oggi quegli stessi stereotipi per cercare di trarre profitto nelle urne della paura verso gli arabi e i neri.
Le celebrazioni della Prima guerra mondiale si sono svolte lo scorso anno nel segno di una crisi dei valori dell’europeismo, il suo romanzo, al contrario, invita a riflettere su cosa significhi davvero «l’identità europea» e quante vicende e protagonisti abbiano contribuito a definirla.
Da migliaia di anni l’Europa si trova al crocevia delle grandi migrazioni. Le due guerre mondiali che si sono combattute nel Ventesimo secolo hanno rappresentato anche l’occasione perché il Vecchio continente accogliesse volentieri centinaia di migliaia di migranti per combattere nelle fila dei suoi eserciti o per lavorare nelle sue fabbriche di armi. Eppure, la stessa Europa tende a dimenticare molto rapidamente ciò che la sua identità sociale, culturale, politica, oltre alla sua prosperità economica, devono all’Africa.

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