CULTURA

Corpi leggiadri e sfuggenti, dispositivi per eros e follia

«I SENTIERI DELLE NINFE» DI FABRIZIO COSCIA, PER EXÒRMA
FABRIZIO SCRIVANOitalia/torino

La Ninfa appare e scompare. A volte si avvicina, a volte rimane lontana, poi svanisce, a volte si ripresenta, talvolta come un ricordo, spesso sparisce per sempre. Ossessione e gioia, la Ninfa è accessibile e intangibile, vitale e mortifera. Così svela la Ninfa Fabrizio Coscia, in un saggio che è quasi un racconto, se non un romanzo, a tratti autobiografico: I sentieri delle Ninfe, nei dintorni del discorso amoroso (Exòrma - Scritti Traversi, pp. 192, 14,90).
TUTTO INIZIA con Aby Warburg, nel racconto di Coscia, quando il grande studioso di immagini si accorge che c’è un tipo di figura femminile ricorrente nelle varie epoche, l’immagine di un corpo che è gesto e movimento. Qualche volta si presenta come una frattura, altre come un’evocazione, ma è sempre sorpresa, spasmo, irruzione, rapimento. È un moto, violento, che però sembra offrire (almeno l’illusione di) appagamento totale e quiete assoluta.
Il saggio, senza dimenticare le numerose apparizioni ninfali dell’antichità, ripercorre numerose «stazioni» di questa passione, soprattutto nel corso del Novecento, rileggendo grandi capolavori letterari, reinterpretando opere pittoriche e cinematografiche, rincorrendo in pratica le Ninfe in diversi contesti. Una passione che naturalmente ha a che fare con l’eros, con il desiderio, e come tale può portare scompenso e dolore, smarrimento e paura.
LA NINFA È GIÀ di per sé un soggetto sfuggente e cangiante, portatrice di un’illusione che ha a che fare con l’emozione dell’effimero; abita le acque o i boschi, appare all’improvviso e ha una forza a cui non si può resistere. È dea e strega, nepente e velenosa insieme, è il lato selvaggio della coscienza e della vita. Coscia segue la Ninfa sfuggente e cangiante sulle orme lasciate da chi ha già percorso quei sentieri di caccia e di perdizione. Entra nella selva fitta dei rimandi con piede di velluto.
LA DORA MARKUS di Eugenio Montale, la Lolita di Vladimir Nabokov, l’Albertine di Marcel Proust, la Martha di Pierre Bonnard, la Judy/Madeleine di Alfred Hitchcock, la Hari di Andrej Tarkovski (per non dire che i principali riferimenti presenti nel libro) sono tutte metamorfosi di una stessa passione, così come lo furono l’Elena di Omero, la Laura di Francesco Petrarca, l’Angelica di Ludovico Ariosto. La Ninfa è anche l’attivarsi di un cortocircuito mentale, che cattura il corpo, che percorre i muscoli e i nervi, che annebbia. È porta di accesso al mondo della follia, una follia ambigua e bifronte: se all’apparizione della Ninfa segue la perdita di controllo sotto la spinta dell’amore, la sua presenza è anche la conquista di un baricentro, di una ragion d’essere, di una dedizione, di un sé.
In tutte queste apparizioni raramente sappiamo che cosa pensi e senta la Ninfa, qualche volta neppure sappiamo chi sia: è sempre rappresentata, raccontata, scrutata, viene da pensare e dire che sia specchio e pratica di una sorta di autismo sentimentale ed emotivo. La Ninfa appare, la Ninfa scompare davanti agli occhi di un sé ora eccitato ora dolente, ora spaventato ora desiderante, sempre e comunque smarrito, sia nel momento dell’incontro sia in quello dell’addio.
LE VARIE APPARIZIONI della Ninfa raccontano un’ossessione maschile? Così sembra. Il vasto repertorio dei Sentieri delle Ninfe è integralmente percorso da cacciatori maschi, ed è cosa che colpisce e imbarazza. Impossibile e ipocrita smentire la forza della sua apparizione, ugualmente difficile trovare una Ninfa al femminile: sembra rarissimo e addirittura impossibile trovare il racconto dell’apparizione di un Ninfo negli occhi di una donna. Tanto che anche Coscia ritrova nell’immagine ambigua e ambivalente della Ninfa la possibilità di una reazione misogina con la quale fare i conti.
VIENE IN MENTE soltanto un personaggio femminile che rifiuta esplicitamente questo ruolo: è la Tigre, la Varia Nestoroff dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello. Varia a un certo punto spiega a Serafino perché rifiutò l’amore del suo primo amante, pittore e amico di Serafino, poi morto suicida: anzi gli mostra alcune grandi tele che la ritraggono, dipinte da quell’amante perduto, prova del fatto dolente che per quello Varia altro non fosse che un’immagine. Ma su questa eventuale prospettiva controninfica c’è forse modo di indagare.

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