INTERNAZIONALE

Trump sfibra l’Iran, Teheran abbandona mezzo accordo

CHIARA CRUCIATIIRAN/USA

Donald Trump potrebbe aver ottenuto ieri quanto va cercando da due anni: l’uscita dell’Iran dall’accordo sul nucleare. Sfibrando l’avversario con un’altalena di annunci, rinvii e smentite, ritirandosi per primo da un’intesa storica e funzionante, riapplicando sanzioni che stanno strangolando l’economia iraniana, minacciando la Repubblica islamica a ogni piè sospinto di un prossimo attacco e infine inviando la portaerei Abraham Lincoln nel Golfo Persico, ha spinto Teheran alla rottura.
È ARRIVATA IERI: il presidente Hassan Rouhani, architetto insieme al suo ministro degli esteri Zarif dell’accordo del 2015 con il 5+1 (Ue, Usa, Francia, Germania, Cina e Regno unito), ha annunciato in tv e in lettere private ai leader dei paesi partner l’uscita di Teheran da alcuni degli impegni previsti. In stand by, fino a un accordo con nuovi termini «che proteggano gli interessi iraniani».
Nella pratica, il mantenimento nel paese delle riserve di uranio arricchito e acqua pesante (300 chili) che avrebbero dovuto essere vendute. E, aggiunge Rouhani, l’arricchimento dell’uranio riprenderà se entro 60 giorni le sanzioni su esportazioni di greggio e settore bancario non saranno sollevate. Zarif, da parte sua, tenta di non far preoccupare troppo gli europei: «Non stiamo operando al di fuori dell’intesa – ha detto ieri – ma all’interno dell’accordo», attraverso l’applicazione delle sezioni 26 e 36 che permettono a una delle parti di ritirarsi da alcuni impegni se l’altra non rispetta a pieno l’accordo. Ovvero gli Stati uniti, usciti esattamente un anno fa dall’intesa e da allora impegnati a reinserire una a una tutte le sanzioni finanziarie e commerciali che sembravano un ricordo del passato.
L’OBIETTIVO DI ZARIF è chiaro, come quello di Rouhani che insiste nel dire che l’intesa è viva e vegeta: costringere l’Europa a intervenire. Ma è anche chiaro che quell’accordo è più in bilico che mai. Depotenziato dalla campagna dell’attuale amministrazione statunitense che ha ucciso il processo di rientro dell’Iran nella compagine internazionale lavorando di cesello alla nascita di un fronte regionale anti-Teheran. Con in testa Israele e Arabia saudita, «lobbisti» della prima ora nel preparare un nuovo conflitto, utile a incrementare il già ricco mercato delle armi da Tel Aviv a Riyadh e a impedire qualsiasi stabilizzazione di un’area del mondo in guerra permanente da decenni.
IL CONFLITTO POTREBBE non diventare mai un confronto militare, ma è già reale: la guerra economica lanciata contro il governo iraniano negli ultimi due anni ha fatto esplodere una delle peggiori crisi economiche della storia della Repubblica islamica. Il valore del rial è crollato a picco, l’inflazione mangia i salari della popolazione, l’alto tasso di disoccupazione impedisce l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
E la situazione peggiora: ieri sera Trump ha ordinato nuove sanzioni all’export iraniano di alluminio, acciaio, rame e ferro. E ora anche i governi europei – che in questi anni hanno difeso l’accordo e spianato la strada ad accordi commerciali miliardari con Teheran, tutti affossati dalle restrizioni Usa – minacciano di fare altrettanto. Ieri Parigi, Londra e Berlino hanno avvertito di conseguenze che nessuno davvero vuole. Ma che nessuno ha neppure evitato: al di là di blande dichiarazioni e prese di posizione, né Bruxelles né i singoli paesi hanno mosso passi concreti per la tutela dell’accordo contro la prepotente e cieca politica estera degli Stati uniti di Trump.
CHI SE LA RIDE è il premier israeliano Netanyahu, che non aspettava altro: «Non permetteremo all’Iran di ottenere l’arma nucleare. Continueremo a combattere contro chi vuole ucciderci», ha detto ieri utilizzando la retorica con cui farcisce i rapporti con l’amministrazione trumpiana, visto che di armi nucleari in territorio iraniano non se ne vedono e che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica in questi anni ha ribadito il massimo rispetto delle clausole dell’accordo da parte di Teheran.

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