VISIONI

Tra jazz e poesia, quando le parole hanno il ritmo giusto

Drumming asciutto e esplosivo, è entrato nella storica formazione nel 1968
NAZIM COMUNALEfrancia/marsiglia

Il 26 aprile Pi Recordings pubblica We Are on the Edge (A 50th Anniversary Celebration), il nuovo, doppio cd di Art Ensemble of Chicago, senz’altro una delle storie più significative della musica creativa afroamericana. Storia che si è intrecciata anche con quella de il manifesto, che distribui nel 2003 Reunion, un disco dal vivo con il maliano Baba Sissoko. Abbiamo raggiunto telefonicamente il batterista Don Moye a Marsiglia, dove vive.
Qual è il suo primo ricordo legato alla musica? Ha avuto epifanie che hanno cambiato il suo modo di esperire il suono?
Mia madre lavorava in un locale che aveva un jazz club a fianco e mi portava sempre a vedere i concerti; inoltre mio padre suonava la batteria. Sono cresciuto in mezzo alla musica ed ho avuto parecchie epifanie: tra queste sicuramente vedere dal vivo Duke Ellington, Billie Holiday, Mahalia Jackson, James Brown e Ray Charles.
Ha studiato a Detroit, la Motor City, un posto zeppo di musica, dalla Motown agli Mc5, dalla techno al rock. Quali sono i suoi ricordi di quel periodo?
Sono andato a Detroit per studiare filosofia ma poi c’era così tanta musica (blues,jazz, soul) che non potevo non rispondere al richiamo e così ho abbandonato l’università per dedicarmici a tempo pieno. Poi nel 1968 mi sono unito alla band di Charles Moore e siamo andati in Europa, e lì mi è capitato di non sentirmi al sicuro. Ho avuto esperienza diretta del fermento e del pericolo che si respirava in alcune piazze: a Roma non c’erano problemi; lì ho suonato in diversi contesti, tra i quali ad esempio il Folk Studio. Ad Amsterdam invece bisognava prestare attenzione, ogni giorno succedeva qualcosa, andare in giro per strada era rischioso. Proprio in Europa, a Parigi, mi sono prima unito all’Art Ensemble e poi, quando siamo tornati negli Stati uniti, all’AACM ( Association for Advancement of Creative Musicians, il collettivo all’interno del quale sono cresciute personalità del calibro di Muhal Richard Abrams, Anthony Braxton, Henry Threadgill e Wadada Leo Smith, ndr ) a Chicago.
Lei definisce il suo stile come Sun Percussion ed ha intitolato così un suo disco del 1975 («Sun Percussion vol.1«, su etichetta AECO). Cosa intende, esattamente?
Sono innamorato delle percussioni tradizionali, del folk, della musica indigena: c’è qualcosa di profondo e di imprendibile in quei ritmi, in quei suoni, che ho sempre cercato di catturare con il mio set di strumenti.
Veniamo all’ultimo disco di Art Ensemble of Chicago. Un disco doppio, per metà registrato in studio e per metà dal vivo all’Edge Festival di Ann Arbor. Nell’ampio organico figurano vecchie conoscenze come Hugh Ragin, Jaribu Shahid, Tomeka Reid e Nicole Mitchel e la contrabbassista italiana Silvia Bolognesi. Diciassette musicisti coinvolti un mood orchestrale, sinfonico a tratti, con forti sfumature di classica contemporanea.
Siamo sempre gli Art Ensemble of Chicago, semplicemente per la prima volta abbiamo potuto lavorare con un largo ensemble su composizioni di Roscoe Mitchell e mie, utilizzando gli archi ed affidandoci anche alle voci. Non saprei dire riguardo alla classica contemporanea: per noi resta sempre Great Black Music Ancient to the Future.
«We are on the edge of victory»(Siamo alla vigilia di una vittoria, ndr), recita «Moor Mother in On the edge». Queste parole suonano strane nell’era Trump, quando in tutta Europa ci sono partiti orientati verso la destra estrema che stanno ottenendo consensi crescenti.
Non possiamo permetterci certo di mollare il colpo! La politica non esaurisce le nostre vite: non possiamo farci influenzare troppo da questa né dobbiamo certo lasciarle permettere di cambiarci.
Quale relazione intercorre tra jazz e poesia secondo lei? Nel vostro disco c’è la poesia «We are on the Edge»,c’è un libro di Jack Kerouac intitolato «Scrivere Bop» e Moor Mother recita i suoi poemi con la band Irreversible Entanglements, nel solco della tradizione del grande Amiri Baraka.
Le parole hanno un ritmo, raccontano una storia. Anche la musica lo fa. Se le parole hanno una loro musica ed un loro ritmo, allora sono anche quella musica e quel ritmo.
Dove stanno andando il jazz e la musica in generale oggi, a suo modo di vedere?
Per quanto mi riguarda c’è troppa informazione in giro , tra internet ed i social media. Io preferisco concentrarmi sullo studio, lo faccio da una vita, non ho ancora smesso né ho intenzione di farlo!
Da dove viene la musica? È una sorta di illuminazione, il compositore cattura una vibrazione?
Non tutti devono necessariamente essere dei compositori. Qualcuno magari trova l’ispirazione per scrivere un buon pezzo, altri la conservano negli anni: è comunque qualcosa di misterioso e di magico e proprio per questo continua a restare affascinante.
Per finire: un ricordo di Lester Bowie, Joseph Jarman (scomparso a gennaio di quest’anno) e Malachi Favors (rispettivamente trombettista, sassofonista e bassista della formazione originale di Art Ensemble, ndr)?
La cosa che ricordo più nitidamente è che con loro abbiamo sempre investito i nostri proventi nel disco a venire, ci siamo sempre mossi come fossimo una cooperativa: non avendo mai avuto grossi budget, escludendo il periodo con l’etichetta giapponese DIW, si è sempre trattato di investire anche il nostro stesso denaro per poter continuare quella che per noi è sempre e comunque stata la cosa fondamentale: fare musica.

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