EUROPA

Tra verità e «falso», lo straordinario testo del Medioevo

Notre Dame era tra le poche cattedrali gotiche con le travi del tetto originali, le stesse che hanno propagato il fuoco
MICHELA BECCHISFRANCIA/PARIGI

È vero, Notre Dame è per molta parte ricostruita, come Viollet-le-Duc ricostruì gran parte dell’idea stessa di Medio Evo in Francia. Come ricostruito è il duomo di Colonia, Santa Marìa la Blanca a Siviglia, la basilica di Collemaggio a L’Aquila. Ma cedere al cinismo della presunta modernità di ciò che è andato perso perché tanto ciò che è bruciato era solo il frutto di quella contraddizione che formò Viollet-le-Duc, assommando conoscenza approfondita dell’architettura medioevale, dai materiali, alla lavorazione e financo della statica, e visionarietà post romantica, appare come l’altra faccia dei difensori ignoranti della superiorità della cultura occidentale. Partiamo allora dal fatto che Notre Dame era tra le poche cattedrali gotiche ad avere ancora le travi del tetto originali, proprio quelle capriate distrutte che hanno funzionato come propagatrici del fuoco e quindi vale sempre la pena considerare l’effettiva entità di un danno, di una pagina irreparabilmente strappata.
QUESTO INCENDIO dovrebbe riportarci invece a considerare qualche lezione che viene da quel Medioevo da ultimo citato così a sproposito, come quella di Gervasio autore del Tractatus de combustione et reparatione Cantuariensis ecclesiae (1174 -1184), una dettagliata descrizione dell’incendio e della ricostruzione del coro della cattedrale di Canterbury che ancora si deve leggere per intendere davvero dove mettere le mani non solo con sapienza e con una nozione dignitosa e severa della propria contemporaneità quando ciò che era brucia e non è più, ma anche quando non va ristabilito nulla, ma necessita lavorare sulla responsabilità morale della memoria, saper dire attraverso un restauro o una ricostruzione le ferite e le rinascite. Insomma, cosa vuol dire ricostruire qualcosa che nuovo sarà, ma che creerà un edificio proprio come Notre Dame lo è già.
DAL CORO COMINCIATO nel 1163 al nuovo presbiterio del 2004, la cattedrale rappresenta nel suo insieme un grande testo scritto con straordinaria sapienza, anche quella che oggi appare una copia, un «falso» della sapienza antica. E come ogni sapienza pure quella della chiesa ha racchiuso in sé molta difettibilità, a partire da un difficile rapporto tra la massività della struttura e la volontà di offrire a chiunque fosse entrato la stupefacente possibilità di leggere un edificio. Quello straordinario intento quasi grafico di rendere visibile, esplicabile il rapporto tra imponenza, del progetto, di Dio, del potere, e criterio del «muro sottile» tipico del Gotico. Ma la sperimentalità assoluta e geometrica del progetto era lucente, non la chiesa che risultò buia e già nel 1225 si dovette intervenire affinché entrasse più luce. Perché nell’architettura gotica, che mai è stata tradita dai successivi molti interventi sulla cattedrale parigina, due elementi sono intoccabili: il valore della luce e la complessità e cosmopoliticità dei visibili rimandi culturali e ideologici. Magistrorum multorum de diversis nationibus manu exquisita depingi fecimus scriveva Suger, l’abate della luce, delle vetrate, l’abate di Saint-Denis che pochi anni prima, ricostruendo la sua abbazia, avrebbe commissionato e scritto le regole auree e colorate del gotico. E da quel cantiere veniva Jean de Chelles che intorno alla metà del Duecento alzò l’impressionante transetto nord di Notre Dame, di cui si sta ora verificando la tenuta, seguito dal famoso Pierre de Montreuil che progettò quello sud.
NOTRE DAME fu anche per secoli espressione di sapere, di cultura, di dibattito furioso, di faziosità, legata come fu all’Università di Parigi e a tutti i suoi tormenti teologici, filosofici e politici.
Questa è Notre Dame e lo sapevano anche i rivoluzionari che certamente mandarono a fondere i metalli preziosi delle oreficerie e distrussero le statue, ma poi, dovendo scegliere dove fare il Tempio della Ragione scelsero proprio Notre Dame, esattamente per quello che quell’edificio rappresentava, per la metaforica luce, abbagliante o corrusca, che emanava, ma proprio per quella luce. Dimostrando cosa sia il coraggio di una vera rivoluzione anche nel rapporto con l’arte e non uno sciatto cupio dissolvi che lascia le impalcature mal montate aggredire le capriate in legno.

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