CULTURA

Il volto crudele dell’epigenetica

Le disuguaglianze sociali possono influenzare il Dna e diventare ereditarie
ANDREA CAPOCCIusa

Per giustificare le disuguaglianze sociali e persino le discriminazioni razziali, ci si appella spesso al cosiddetto «darwinismo sociale». Ovvero, al fatto che la selezione naturale operi anche tra gli umani, premiando i più adatti con il privilegio sociale ed economico. E se invece fosse tutto il contrario? Se, cioè, le caratteristiche genetiche di una persona fossero la conseguenza del suo status, e non la causa? Il dubbio viene leggendo una ricerca appena pubblicata sull’«American Journal of Physical Anthropology» dal gruppo di ricerca della Northwestern University dell’Illinois diretto dall’antropologo statunitense Thomas W. McDade. I ricercatori hanno studiato la relazione tra condizioni sociali e stato di salute di alcune centinaia di abitanti dell’isola di Cebu, nelle Filippine. E così hanno scoperto che i problemi di salute non solo dipendono dalle condizioni sociali, cosa abbastanza ovvia, ma si possono persino trasmettere per via genetica alla progenie.
LA TRASMISSIONE ereditaria di caratteri acquisiti si chiama «epigenetica». Sembra una violazione delle teorie darwiniane e una riesumazione di quelle di Jean-Baptiste Lamarck, il naturalista francese vissuto tra ‘700 e ‘800 secondo il quale la muscolatura irrobustita con l’allenamento si trasmetteva di padre in figlio. In realtà, ancor oggi Darwin ha ragione e Lamarck no: solo che il Dna è più complesso come ci veniva raccontato a scuola.
Fino a poco tempo fa, si riteneva che la doppia elica del Dna contenesse una mera sequenza di geni, le istruzioni che la cellula interpreta e traduce in proteine con cui svolge le sue funzioni. Oggi i ricercatori hanno messo a fuoco i meccanismi che aumentano o frenano l’attività dei geni, cioè l’«espressione genica» nel gergo dei biologi. L’espressione genica gioca un ruolo fondamentale, perché permette alle cellule di differenziarsi: una cellula del tessuto nervoso e una dei muscoli attivano geni diversi perché, dovendo svolgere funzioni diverse, hanno bisogno di produrre proteine diverse.
Tra i fattori che influenzano l’espressione genica c’è lo stile di vita. Una persona sportiva, ad esempio, rafforzerà l’espressione di certi geni nelle cellule dei propri muscoli per sostenere la fatica.
TRA I FATTORI che modificano l’espressione genica, ci sono i «gruppi metilici», molecole che si legano all’elica del Dna in punti ben precisi in un processo detto «metilazione». Nel corso dell’esistenza, l’organismo si adatta al suo ambiente accumulando tali molecole nelle proprie cellule, ovuli e spermatozoi compresi. Perciò, in certe condizioni passano anche alle generazioni successive, in base a meccanismi ancora poco chiari ai biologi.
La ricerca di McDade e collaboratori ha misurato lo status socioeconomico influenzi la metilazione e quindi l’espressione di geni coinvolti nel sistema scheletrico, nervoso e immunitario. Grazie a questo meccanismo, le condizioni sociali favoriscono lo sviluppo di patologie tipiche nei ceti più poveri e trasferiscono questa predisposizione alle generazioni successive. «Questo dato sottolinea come la povertà influenzi a lungo termine un ampio spettro di funzioni e processi fisiologici», sostiene McDade. Cosa più inquietante: la disuguaglianza sociale può trasmettersi come una malattia ereditaria. Non è un’ipotesi campata per aria. Anzi, è già stata osservata in un celebre studio del 2008 sulla popolazione olandese i cui geni riportano ancora le tracce della carestia sofferta durante la seconda guerra mondiale, cioè dalla generazione precedente. Anche in altre specie animali simili a noi, come i macachi, il rango sociale influenza l’espressione genica.
L’INCARNAZIONE delle disuguaglianze sociali è stata ribattezzata “transizione sociobiologica” dai biologi Carlo Alberto Redi e Manuela Monti dell’università di Pavia. Al tema hanno dedicato anche un recente saggio dal titolo Genomica sociale. Come la vita quotidiana può modifiare il nostro Dna (edito da Carocci). Citando un gran numero di ricerche che riportano risultati simili a quelli appena pubblicati da McDade, Redi e Monti mostrano quanto sia stretto il legame tra biologia e organizzazione sociale. «Alcune di queste marcature epigenetiche possono essere trasmesse alle generazioni future», spiegano, «e così il vantaggio, più frequentemente lo svantaggio, ereditato passa alle nuove generazioni: le ingiustizie si perpetuano».
Se da un lato la scoperta delle ricadute dell’epigenetica demolisce l’ideologia razzista, secondo cui tra le etnie esistono gerarchie «naturali», dall’altro lancia un allarme: cristallizzandosi nel Dna, le disuguaglianze sociali potrebbero allargare il divario tra ricchi e poveri fino a farne due gruppi distinti anche dal punto di vista biologico. In questo modo, il razzismo diventerebbe una profezia che si auto-avvera. Inoltre, essa impone una rivoluzione copernicana di un approccio alle disuguaglianze ormai diffuso anche a sinistra.
SEMPRE PIÙ SPESSO, la domanda di equità oggi si presenta come richiesta di meritocrazia: una competizione tra gli individui in cui vinca il migliore sulla base del talento distribuito in modo casuale ma democratico nella popolazione. La logica conseguenza di questa richiesta è che gli sconfitti si rassegnino al loro destino tanto sfortunato quanto ineluttabile. Per una strana ironia, questa ideologia cita spesso le teorie biologiche, come il «darwinismo sociale», per giustificare le sue conclusioni. Ma si tratta di un bufala scientifica. La biologia, semmai, ci mostra come anche la predisposizione biologica e cognitiva di un individuo sia una costruzione sociale e riflette le disuguaglianze sociali del suo ambiente di provenienza, persino a generazioni di distanza.

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