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Perché il Pil dell'Italia non cresce, pur essendo il paese che investe di più in macchinari

ECONOMIA
NICOLA ACOCELLA, ROBERTO ROMANOITALIA

L’Europa e l’Italia attraversano la Storia economica senza un progetto e, peggio ancora, nessuna consapevolezza. Sebbene l’economia internazionale fatichi a trovare un equilibrio o un progetto per configurare le nuove istituzioni del capitalismo, necessarie per governare una fase socio-economica che disegnerà la geografia internazionale dei poteri, alcuni Stati si attrezzano per giocare un ruolo più o meno importante nella gerarchizzazione dei poteri.
Registriamo l’attivismo della Cina e degli Stati Uniti così come quello della Germania che cerca di sostituire la domanda europea con la domanda di paesi diversi dall’Europa, ma nel corso di questi ultimi 10 anni la capacità di produrre reddito dei così detti paesi periferici si è indebolita strutturalmente.
Tutta la produzione nobile e ad alto valore aggiunto si è concentrata in Germania, lasciando la produzione di beni a basso valore ai Paesi periferici.
La polarizzazione del Pil potenziale europeo sta condizionando le politiche di tutti gli Stati che cercano di uscire dalla stagnazione. All’interno di questo scenario abbastanza difficile, troviamo un paese come l’Italia che non vuole in nessun modo guardare in faccia ai suoi problemi di struttura, imputando alla pressione fiscale, alla legalità, al mercato del lavoro, perfino alla spesa pubblica, la minore crescita.
Il fisco, meglio ancora la pressione fiscale, diventa l’oggetto della disputa politica, condizionando financo alcune proposte sindacali. In realtà il Paese attraversa una crisi di struttura che dovrebbe allarmare tutte le persone di buon senso. Si fa presto a dire che si esce dalla crisi con nuovi investimenti e in particolare con investimenti che modificano la struttura produttiva.
L’impresa italiana ha tanti difetti, ma si rimuove il difetto più grave che non permette di crescere tanto quanto almeno la media europea. Per strano che possa sembrare, gli investimenti in macchinari, soprattutto dopo gli incentivi predisposti da Calenda, sono cresciuti in misura considerevole. Dovevamo recuperare il ritardo accumulato tra il 2007 e il 2012, ma qualcosa non ha funzionato.
Tra il 2015 e il 2018 gli investimenti in macchinari delle imprese nazionali sono aumentati del 29%, quanto e come in Spagna; la Francia e la Germania registrano valori molto più contenuti, rispettivamente 17 e 14 per cento.
Perché il Pil dell’Italia cresce in totale nei tre anni solo del 4,2%, contro il 6,2 di Francia e il 7,8 per cento della Germania?
Nella discussione politica spesso si fa riferimento alla de-specializzazione della struttura produttiva italiana, ma non si arriva mai fino al fondo al ragionamento. Se essa è de-specializzata, con difficoltà può produrre i macchinari che le imprese acquistano. Si tratta di beni capitali che condizionano tutta la catena del valore. Ciò implica che, quando l’Italia innova investendo la Germania brinda (S. Lucarelli). Una esagerazione perché c’è il made in Italy? Il made in Italy vale solo per i beni di consumo che hanno, giustamente, un minor valore aggiunto. Il paradosso è questo: le imprese italiane comprano macchinari quanto e più degli altri Paesi, nel mentre cresce l’avanzo commerciale della Germania sull’Italia proprio nei beni capitali. Per gli amanti della teoria economica, l’effetto Ricardo (quando aumentano i salari le imprese realizzano nuovi investimenti per sostituire lavoro) diventa perdita secca di lavoro e di potenziale produttivo a favore di quello tedesco.
Il Paese vive una fase drammatica; servirebbe una buona politica pubblica, ma per farla dobbiamo conoscere almeno i problemi da affrontare.

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