CULTURA

Dalla Transilvania alle periferie dell’isolamento morale

ÁDÁM BODOR - Intervista con lo scrittore ungherese di cui di recente il Saggiatore ha pubblicato il romanzo «Boscomatto»
MASSIMO CONGIUungheria

Ungherese di Transilvania, lo scrittore Ádám Bodor è nato a Cluj (Kolozsvár in ungherese) nel 1936 da una famiglia di origini ungheresi e armene. È vissuto in Romania fino al 1982 per poi trasferirsi a Budapest, dove tuttora vive e lavora. Condannato nel 1953 per «cospirazione contro lo Stato e diffusione di stampa sovversiva» a cinque anni di reclusione, poi ridotti a tre, Bodor è considerato uno dei maggiori esponenti della narrativa ungherese contemporanea.
A febbraio è uscito Boscomatto (titolo preferito da Il Saggiatore a quello originale: Verhovina madarai, Uccelli della Verhovina), nella pregevole traduzione di Mariarosaria Sciglitano. Prima di Boscomatto, è uscito in italiano Il distretto di Sinistra (traduzione di Marinella D’Alessandro, e/o, 1999). Da alcune sue opere sono stati tratti film premiati a livello internazionale come Outpost, (da A részleg, regia di Péter Gothár, 1994), e Dolina, (da Az érsek látogatása, La visita dell’arcivescovo, regia di Zoltán Kamondi, 2007). Con lui abbiamo parlato di letteratura, società e dell’Ungheria di oggi.
In «Boscomatto», c’è una storia che si svolge in un centro abitato che sembra isolato dal resto del mondo e ricorda per certi versi quel senso di autoreferenzialità de «La visita dell’arcivescovo». Da cosa deriva questo elemento ricorrente dell’isolamento?
Bisogna immaginare questi piccoli abitati, che spesso costituiscono il luogo dei miei scritti, come lontani dal centro, in prossimità di confini, comunque in zone di periferia. Da un certo punto di vista essi sono legati anche a un isolamento morale. In genere cerco di evitare di aggirarmi intorno alla condizione morale dell’Europa Orientale, alla lingua superficiale dei rapporti umani di questi luoghi, in quanto le sue peculiarità si sono determinate in circostanze di asservimento sociale secolare.
Ritengo che là dove la pressione feudale ha gravato per secoli sulla società siano rimasti dei segni profondi. Questa pressione ha fissato le cornici del pensiero, del comportamento, fin nelle profondità dell’animo umano, includendo la sostanza della comunicazione fra persone. Qui i rapporti umani sono spesso giochi di ruolo, la gente è già in partenza prevenuta, non parla di quello che accade o di quello che pensa, ma cerca di eludere la realtà. Da giovane, ancora ai tempi del socialismo, ho frequentato molto queste zone di periferia e lì ho sperimentato cose analoghe. Ho provato a interpretarle e a parafrasarle.
Nei suoi scritti ha sempre un posto di riguardo l’ambiente naturale come elemento che dà pace a quanti vivono in condizioni difficili, inaccettabili. Questo aspetto è presente ne «Il distretto di Sinistra». Ma a volte succede che la natura diventi inquietante. Ne «La visita dell’arcivescovo» è aggredita dall’inquinamento e dai rifiuti, in «Boscomatto» ci sono sorgenti termali che brillano di luci strane. La vita di quanti abitano in quei posti è irrimediabilmente condizionata da queste particolarità...
In queste zone di periferia mi sono realmente trovato a contatto con la natura, e mi sono lasciato influenzare profondamente da essa. C’è sicuramente anche un aspetto caratteriale, mi hanno sempre attratto i monti. Sono stato più volte in prossimità di miniere, e sono rimasto molto impressionato: la presenza di attività umane in un ambiente naturale, anche questo fa parte della nostra cultura. Per me quella dell’ingresso di una cava con tutte le sue attrezzature, le persone che ci lavorano, è una visione emozionante, impressionante, anche se è stata realizzata a costo di alterare il paesaggio, sistemandovi intorno macchine e strumenti che imbruttiscono un ambiente originariamente bello, sereno. Una delle esperienze per me particolarmente deprimenti è la constatazione che un individuo che vive a contatto con la natura è più vulnerabile, più facilmente manipolabile e influenzabile, per quel che riguarda il suo ordine di valori e le sue aspettative morali ed estetiche, di persone cresciute, per esempio, in un ambiente tradizionalmente borghese che, a mio avviso, mostra segni molto meno preoccupanti sul piano dei cambiamenti sociali.
Ha fatto riferimento ad aspetti di carattere morale. Che posto hanno nella sua produzione letteraria?
Le opere letterarie in genere nascono, anche se non sempre in modo appariscente, all’insegna di una concezione morale, etica. Ogni storia ha una posta in gioco di carattere morale, e la morale è presente anche quando proviamo a esplorare un contesto amorale, dove l’etica ha apparentemente poco da spartire con la vita quotidiana.
Nei suoi libri è presente un regime che sovrasta le persone e che, immaginiamo, sia retaggio del suo vissuto personale all’epoca del cosiddetto socialismo realizzato...
Certamente. È presumibile che se io fossi cresciuto nell’ambiente sociale di una democrazia borghese dell’Europa occidentale la questione non sarebbe stata di mio interesse. Anche questo tema è più complesso di quanto non si possa pensare a primo acchito. Ho letto scritti, ricordi di quell’epoca che trovo decisamente superficiali: la maggior parte di essi descrive una società dicotomica, cosa che si aspettano venga accettata anche dai loro lettori. È grave! Ho letto sul tema della dittatura libri di cattiva qualità, opera di scrittori che hanno vissuto tale condizione da adulti, l’hanno sperimentata sulla loro pelle. Libri non meno cattivi di autori che non l’hanno mai vissuta direttamente. Ma di questo il lettore non si rende conto. Si guarda all’oppressione con un’ottica molto semplicistica, primitiva, facilmente gestibile e nuovamente riproponibile con elementi accessori. Forse vista in questo modo non è nemmeno così tragica, si limita ad apparire tale, perché nel nostro immaginario c’è solo la raffigurazione schematica della dittatura. La maggior parte delle persone non si accorge di comportarsi e soprattutto di pensare come il sistema si aspetterebbe che facesse. Questo è difficile da spiegare anche a chi ci è vissuto.
Stiamo parlando di regimi autoritari, oggi a Budapest c’è Orbán. Facciamo pure le debite distinzioni col passato recente del paese, quello antecedente il 1989. Vediamo che il premier non è comunque un esempio di democrazia compiuta. Cosa pensa dell’Ungheria di oggi?
Questo parallelismo è solo apparente. La gente è incline a paragonare aspetti che sta appena sperimentando ad altri già esistenti o esistiti. A me piace considerare le cose nella loro realtà originale, vergine, unica. Per questo dico di non vederci un vero parallelismo. Quand’anche si riuscisse a trovare una qualche parentela tra le due situazioni storiche, si dovrebbe comunque rilevare che le stesse hanno radici diverse. Il comunismo est-europeo successivo alla Seconda guerra mondiale è stato una condizione imposta ai paesi di quell’area con la superiorità del potere, con la supremazia militare. Quella attuale è invece una realtà sempre più rigida basata sul sostegno sociale, su una determinazione gonfiata da forti ambizioni personali, leaderistiche, con lo sfruttamento delle possibilità offerte dagli strumenti della democrazia. La questione va valutata con prudenza.
Di recente gli scrittori hanno espresso pubblicamente la loro solidarietà ai lavoratori, agli studenti e a quanti scendono in piazza per contestare il sistema di Orbán. Lei condivide il documento redatto dagli scrittori in segno di solidarietà verso i contestatori?
Condivido, naturalmente. La solidarietà è una bella cosa, mostriamo sempre di stare dalla parte di chi vive in una condizione precaria, soprattutto se riteniamo che abbiano ragione. Ma, in fondo, avverto anche una sorta di ripiego. In realtà non confidiamo nell’effetto, piuttosto dichiariamo le nostre convinzioni. Riesco a sperare in un risultato solo a livello istintivo.
Che futuro vede per l’Ungheria e per la letteratura ungherese considerando la politica del governo in ambito culturale e la sua propensione a sostenere solo gli scrittori che dimostrino attaccamento ai valori delle lettere ungheresi?
La sorte della letteratura ungherese, il suo futuro, non mi preoccupano affatto, essa è già sopravvissuta a questo e ad altro. Se chi guida un paese - e parlo anche di quanti dovrebbero tutelarne la cultura - revoca, sfruttando la sua posizione di potere, i finanziamenti necessari a un organismo che rappresenta una realtà culturale significativa, ne mette a rischio l’esistenza, e proclama il suo disprezzo per tutti i suoi esponenti e anche per la cultura del paese. Questo, a trent’anni dal crollo di una dittatura, appare inimmaginabile. Anche io sto sperimentando gli effetti di tale intento politico. Il flusso e la direzione dei finanziamenti statali sono stabiliti in base a una politica divisoria che non ha nulla a che fare con la fedeltà alle tradizioni letterarie.

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