VISIONI

Alle radici dell’odio, sguardi e storie di ordinaria violenza

«Ray & Liz» di Richard Billingham, ritratto di famiglia indigente a Birmingham
SILVIA NUGARAitalia/bergamo

Si è concluso domenica il 37° Bergamo Film Meeting che, tra visioni contemporanee e recuperi dal passato, ha offerto la possibilità di riscoprire anche opere quasi invisibili come La concentration (1968) di Philippe Garrel, proiettato in 35mm nell’ambito dell’omaggio a Jean-Pierre Léaud. Nel film, un uomo (Léaud) e una donna (Zou Zou) sono legati da una relazione di codipendenza che li vincola agli spazi asfittici della loro comune nevrosi. La scenografia è astratta come i costumi, ridotti per entrambi a un completo intimo bianco. L’architettura scenica è divisa in due compartimenti che non lasciano via d’uscita se non la morte e in cui gli attori-archetipi si muovono a fatica, per lo più seduti, sdraiati, accasciati in un universo concentrazionario da camera: in tale teatro claustrofobico di corpi afflitti, va in scena la morte dell’amore dentro le dinamiche della coppia. Garrel compone inquadrature geometriche, fatte di pareti e ripiani, tagli di luce e linee taglienti come lame o come quel tratto di pellicola che Léaud si passa sulle vene di un polso. Al pari dell’amore, il cinema è una passione senza scampo, à la vie à la mort. La macchina da presa si muove tracciando linee, ellissi, curve, in una teoria di andirivieni ed evoluzioni sul posto che accerchiano i personaggi, disorientano lo sguardo e trasmettono la sensazione di una rivoluzione impossibile. La concentration è una presa di parola tutt’altro che trionfalistica nel pieno della contestazione.
DI COME la violenza sia sempre un fenomeno di matrice sociale anche quando si esercita nel privato ci parlano, con tutt’altro linguaggio cinematografico, i due film britannici presentati in concorso al BFM. Ray & Liz di Richard Billingham, che a Locarno 2018 si era conquistato una menzione speciale, alterna presente e passato per comporre il ritratto impietoso, struggente ma anche satirico, di una famiglia indigente nei sobborghi di Birmingham. Ray è un povero diavolo, Liz un donnone dalla mano pesante, entrambi sono preda dell’alcol e trascinano le loro vite di scarto sotto gli occhi del figlioletto. Gli effetti che la violenza esercita su chi sin da piccolo non ha conosciuto altro che botte e privazioni sono il nucleo di Obey opera prima di Jamie Jones. Il giovane Leon vive nella periferia Nord di Londra. Non studia né lavora e passa la maggior parte delle sue giornate in palestra a tirare di boxe pur di evitare la madre alcolizzata e il suo boyfriend manesco. Una sera, a una festa in uno squat, il ragazzo incontra Twiggy, che lo attrae come il miraggio di tutto ciò che lui non è e non sarà mai: bianca, bionda, a suo agio nel mondo, ribelle a tempo perso.
IL FILM è ambientato durante i riots che infiammarono Londra nel 2011, ricostruiti tramite materiali d’archivio e scene girate braccando i personaggi da vicino. Quando la polizia sgombera lo squat, Twiggy torna alla villetta di mamma e papà mentre Leon si trova a fare i conti con un destino inesorabile. A Bergamo, Jones ha dichiarato: «Quel che può sembrare un film senza speranza è in realtà un invito al dibattito e all’azione. Un film a lieto fine ci appaga ma ci immobilizza mentre ritengo che la realtà in cui viviamo vada cambiata». Su un analogo sfondo di crisi economica, scontri e saccheggi è ambientato l’argentino El motoarrebatador di Agustín Toscano, anch’esso in concorso dopo il passaggio alla Quinzaine di Cannes nel 2018 e premiato dal pubblico bergamasco. Il film inizia con uno scippo in moto ai danni di una donna anziana. Tormentato dal senso di colpa, l’autore del gesto decide di cercare la sua vittima in ospedale e quando la trova, complice la perdita di memoria indotta dal trauma cranico, instaura con lei un’amicizia destinata però a fare presto i conti con quanto accaduto. Giocando su più registri, dal dramma alla commedia, il film applica le regole classiche della suspence all’affresco sociale e al ritratto di un’umanità che sopravvive in una zona opaca tra verità e menzogna, tra legalità e illegalità.
LA VIOLENZA è anche quella della costruzione di frontiere e di rigide identità nazionali, temi esplorati da diversi documentari presentati nella sezione «Visti da vicino», tra cui Zentralflughafen Thf di Karim Aïnouz che osserva la vita quotidiana nell’ex aeroporto Tempelhof di Berlino adibito da diversi anni a enorme rifugio per richiedenti asilo di ogni età e provenienza che vivono vite sospese tra angoscia e speranza. Tra presente e passato, invece, si collocano due film dalla forma curiosamente analoga: Insulaire dello svizzero Stéphane Goël segue il filo delle memorie del connazionale Alfred von Rodt, aristocratico avventuriero che nel 1877 colonizzò l’arcipelago Juan Fernández, di cui è parte l’isola Robinson Crusoe, al largo della costa cilena. La voce narrante di Mathieu Amalric interpreta von Rodt che racconta l’epoca del primo insediamento e della lotta strenua con gli elementi naturali mentre le immagini ci mostrano la vita odierna su un territorio ancora oggi abitabile solo per il 4% data la sua conformazione impervia e il costante rischio di tsunami.
GLI ABITANTI sono cacciatori-pescatori molto territoriali, ansiosi di preservare la propria identità insulare e di limitare al minimo ogni forma di immigrazione proprio come accade oggi dall’altra parte del mondo, in quella Svizzera da cui von Rodt partì. Dal canto suo, Eastern Memories di Martti Kaartinen e Niklas Kullström racconta un fenomeno inverso in cui i territori non si dominano ma si attraversano e le identità non si irrigidiscono ma si meticciano. Il film si ispira alle memorie del linguista finlandese Gustaf John Ramstedt che nel 1898 si recò in missione di studio in Mongolia e poi di lì viaggiò per anni in Cina, Giappone e Corea dove oltre a fare ricerca rivestì anche cariche diplomatiche. Il racconto in prima persona elaborato a partire dai documenti lasciati da Ramstedt si intreccia a immagini girate ora nei luoghi da lui visitati dando anche voce a chi ci vive e lavora attualmente. Se i mongoli dicevano: «non siamo noi a possedere la terra ma è la terra che ci possiede», ciò vale per molte delle persone incontrate oggi più che per Ramstedt che seppe trovare radici in ognuna di quelle terre per poi darsi allo studio dell’esperanto, quasi un tentativo di sublimare l’idea di appartenenza nazionale.
IN FORMA più intima, anche Messaline Raverdy compie in Derrière les volets una riflessione su identità, corpi e spazi. Qui gli spazi sono quelli di una storia famigliare: le antiche officine in cui il nonno della regista possedeva una fabbrica di caffè chiusa da tempo e in cui oggi non le è permesso entrare. Di conseguenza, Raverdy si rifugia dirimpetto, nella casa della nonna e da lì, mentre è incinta, ricompone attraverso oggetti, suoni, canzoni, fotografie, i frammenti di una memoria in divenire, allo stesso tempo a lei ignota e visceralmente legata al suo essere, una memoria che come nell’epigrafe delle Confessioni di Rousseau, è «intus e in cute» all’interno e sotto la pelle.

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