VISIONI

Da ragazzo ribelle a Roi Soleil, i volti infiniti di Jean-Pierre Léaud

Nella sezione Visti da vicino «Mudar la piel» di Schulz e Fernández
SILVIA NUGARAitalia/bergamo

Al Bergamo Film Meeting (9-17 marzo) il cuore della storia del cinema batte all’unisono con il ritmo del presente. È il ritmo seduttivo e cadenzato con cui il guru della house music di Detroit Jeff Mills ha accompagnato la proiezione di Metropolis di Fritz Lang durante la serata inaugurale. È il ritmo electro che pulsa sulle immagini in bianco e nero dei bei promo che aprono le séances, uno diverso per ciascuna sezione del festival, compresa la retrospettiva dedicata a Jean-Pierre Léaud, curata da Angelo Signorelli. L’omaggio sta riproponendo alcuni dei film più rappresentativi di una carriera straordinaria in cui vita e cinema, persona e personaggio si rivelano inscindibili, una la rifrazione dell’altro e viceversa.
DICIOTTO titoli, quasi sessant’anni di cinema, capaci di restituire le diverse anime di cui Léaud è stato interprete nel corso di una vita-carriera ancora in mutazione. Da Truffaut a Godard, da Jean Eustache a Skolimowski, da Garrel ad Assayas, da Bonello ad Albert Serra: per loro Léaud è stato il ragazzino poetico e ribelle dei Quattrocento colpi, l’Antoine Doinel innamorato di Baci rubati e di Non drammatizziamo... è solo questione di corna, il magazziniere sognatore di Il maschio e la femmina, il maoista da interni de La cinese, il sicario surreale di Ho affittato un killer, l’artista che non si rassegna al disarmo de Le pornographe, il re-dinosauro morente de La mort de Louis XIV. Ospite in questi giorni nella città lombarda, Léaud è rimasto fedele alla fama di ritroso che è andato costruendosi da anziano, sempre meno incline a concedersi – fuori dallo schermo – agli sguardi impudichi del pubblico e della stampa e ciononostante ha accettato di introdurre alcune delle proiezioni con brevi lampi di memorie: «Ho iniziato a lavorare nel cinema a quindici anni con Truffaut poi, poiché bisognava pur guadagnarsi da vivere, ho iniziato a lavorare con Jean-Luc Godard»; «Truffaut diceva: ‘un film si fa per amore del cinema o per amore di una donna, ma Baci rubati l’ho fatto per amore di Jean-Piere Léaud’. Dopo Baci rubati, Henri Langlois chiese a Truffaut di fare un altro film su quella stessa coppia che si sposava. François decise allora di farne una commedia sull’adulterio, Non drammatizziamo... è solo questione di corna. E io ero così felice di tornare a interpretare Antoine Doinel che, se notate, in quel film io sorrido tutto il tempo».
MENTRE la città si mette in moto nell’aria pungente e nel cielo terso delle nove di mattina, c’è chi si mette in coda per (ri)scoprire un film del 1968, La concentration di Philippe Garrel, o rivedere La cinese di Godard apprezzandone la messa in scena limpida contro la fumosità di discorsi continuamente offuscati dal magnetismo delle due protagoniste: il dire conta più del detto. Festival di pubblici diversi, al BFM ci sono i cinefili agés, gli universitari e i giovanissimi che con le scuole scoprono Méliès e Segundo de Chomón oppure le attuali avanguardie dell’animazione come Anca Miruna Lazarescu che trova nuove forme per riflettere su storia e memoria. Tale ricerca investe anche il fronte del documentario, a cui è dedicata la sezione competitiva «Visti da vicino», dove è stato presentato Mudar la piel di Ana Schulz e Cristobal Fernández. Il film è una riflessione sull’inaccessibilità di una verità storica univoca, a partire da una vicenda che ha toccato in prima persona la famiglia della stessa co-regista. Ana Schulz è infatti figlia di madre tedesca e di padre spagnolo. Quest’ultimo, militante politico e ideatore del centro culturale di studi per la pace Gernika Gogoratus, si è trovato a svolgere la funzione di mediatore nel conflitto tra lo stato spagnolo e gli indipendentisti baschi. Negli anni Novanta, il padre strinse un’amicizia quasi fusionale con Roberto, uomo misterioso che si rivelò essere una spia dei servizi segreti.
IL FILM prende le mosse da una fotografia, in cui il padre di Ana è in primo piano e Roberto sullo sfondo, sfuocato, per indagare l’enigma di un’amicizia che neppure il tradimento sembra aver rotto. Il padre di Ana, infatti, continuò a visitare Roberto in carcere e ancora oggi non cede ad alcun rancore nel raccontare alla figlia il suo legame con quell’uomo tormentato e ambiguo. Quando questi, dopo aver trascorso diversi anni in carcere, esce, accetta di essere intervistato per il documentario ma presto cambia idea rendendo il film infattibile. «Un documentario è interessante quando mostra i conflitti incontrati durante la sua realizzazione», dice il padre alla regista, e infatti Mudar la piel è un documentario su come anche un film impossibile può esistere malgré tout, se è capace di mutare la propria forma in funzione delle condizioni che la realtà impone alla sua realizzazione. Così accade che quando uno dei protagonisti principali della vicenda storica si sottrae alle riprese, l’unica soluzione è ricorrere alla finzione, a una finzione che non temendo di riflettere sul proprio statuto, finisce per dircela lunga sulla realtà. In fondo era il mantra che Godard faceva ripetere a Jean-Pierre Léaud ne La cinese: l’arte non è il riflesso della realtà bensì la realtà di quel riflesso.

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