SOCIETA

Vive, libere e senza debiti nell’Argentina di «Ni una menos»

Mobilitate per i diritti e il lavoro a Buenos Aires. Un movimento plurale che ha saputo riempire i vuoti lasciati dal sindacato
ARIADNA DACIL LANZAargentina/buenos aires

La bimba ha 11 anni e non sa che la chiamano Lucia per non rivelare la sua vera identità. Non sa nemmeno che giorni fa hanno parlato di lei tutti i giornali del suo paese e quelli di altri continenti.
LUCIA NON CAPIVA che aveva dentro di sé una gravidanza di 16 settimane, prodotto della violenza sessuale del compagno di sua nonna. L’interruzione della gravidanza sarebbe dovuta avvenire senza ritardi, essendo prevista dalla legge argentina fin dal 1921. Ma le pressioni del governo locale - la provincia di Tucumán, nel nord-ovest - e dei gruppi anti-abortisti, hanno dilatato i tempi fino alla 23ma settimana.
Fino a quando il rischio per la vita di Lucia ha reso necessario l’intervento chirurgico. In sala operatoria medici e infermieri, eccetto il chirurgo, si sono dichiarati obiettori di coscienza, obbligando di fatto Lucia a partorire con un cesareo.
La reazione davanti a tale ingiustizia e l’orrore suscitato dal caso hanno prodotto non solo la campagna Niñas no madres ma anche, questa settimana, una serie di denunce penali alle massime autorità della provincia e dell’ospedale.
«NON CI UNISCE L’AMORE ma lo spavento» scrisse Jorge Luis Borges, e forse c’è qualcosa di simile nel movimento femminista, che di fronte a casi come quello di Lucia si organizza e risponde. «Mentre la Cgt (principale organizzazione sindacale argentina, ndr) prende il tè, noi ci prendiamo le strade», fu la consegna della prima mobilitazione contro il governo neoliberista di Mauricio Macri. Un passo - il blocco delle donne si concretizzò il 19 ottobre 2016 - dal quale il movimento argentino non è più tornato indietro.
I vertici sindacali in quel periodo vacillavano tra l’appoggio al governo e l’opposizione alle sue politiche di austerità. Lì il movimento femminista ha saputo occupare gli spazi lasciati vuoti. Andando ben oltre le rivendicazioni delle donne.
L’Argentina è il paese più indebitato della regione secondo gli ultimi dati del Cepal (Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi). Il debito supera il 97% in rapporto al Pil, il quale secondo dati del governo è diminuito del 3% rispetto al 2015, mentre l’aumento dell’inflazione è stato del 47,6% nel 2018, senza il corrispettivo aumento dei salari.
LO STESSO GOVERNO ha dovuto riconoscere che il 27,3% della popolazione del paese vive sotto la soglia di povertà.
Un dato ampiamente superato dai calcoli di istituzioni della società civile, come l’Osservatorio sul debito sociale dell’Università Cattolica Argentina, che parla di 33,6% di popolazione povera nel 2018. Se a questo panorama generale si sommano disuguaglianze specifiche tra uomini e donne, per esempio a livello lavorativo, la situazione è ancora più grave: la breccia salariale oscilla tra il 20% e il 38%, a seconda che si tratti di lavoro qualificato o meno, secondo il rapporto «La disuguaglianza può essere misurata», pubblicato da Economia Femminista. E alle disuguaglianze in ambito lavorativo si aggiungono i casi più estremi: le violenze sulle donne provocano una morte ogni 32 ore, secondo i dati dell’Osservatorio sui femminicidi in Argentina.
IERI UNA BANDIERA della Coca cola era in testa al primo contingente di donne che si mobilitava verso il Congresso nazionale. Intonando la melodia di Bella Ciao, cantavano: «Siamo donne lavoratrici, oggi veniamo a gridare sciopero generale, nessun licenziamento e reintegri subito!». Erano le 9 di mattina a Buenos Aires e su Corso Callao, una delle arterie che conducono al parlamento - e all’epicentro della giornata - le donne marciavano gridando «8 marzo, non una senza lavoro».
«Siamo qui per il reintegro al lavoro dei nostri compagni licenziati. È avvenuto nel 2018 e in questo inizio di anno la Segreteria del Lavoro, Coca Cola e Sutiaga (Sindacato unificato dei lavoratori dell’industria di acque gassose e affini) si sono accordati per 32 licenziamenti più le dimissioni volontarie», sono state le parole di Carina, lavoratrice e membro della Commissione delle donne all’interno di Coca Cola, per denunciare la complicità tra il governo di Mauricio Macri, l’azienda multinazionale e i vertici sindacali. Carina faceva riferimento alle lavoratrici di altre imprese: «Da molto portano avanti lotte ed è importante che ci sosteniamo tra tutti e tutte». Dopo l’irruzione di Ni una menos nel 2015, che nacque per esigere il minimo, cioè la sopravvivenza fisica delle donne, iniziarono ad aderire al movimento sempre con più forza altre rivendicazioni come la legalizzazione dell’aborto o la parità salariale, perché come spiega Carina «oggi è giustamente il giorno della donna lavoratrice», ma è anche l’occasione per una forte critica a un governo che promuove tagli alla spesa e aggiustamenti sociali indiscriminati.
ALLA LUCE DI TUTTO QUESTO, il movimento femminista, pur essendo nominato al singolare, deve essere plurale. Lo sciopero delle donne di questo 8 marzo è stato organizzato attraverso numerose assemblee, i cui dibattiti sono confluiti nel documento che è stato letto in chiusura di giornata, di fronte al Congresso Nazionale. Come sintetizzato dal collettivo Ni una menos: «Ci siamo convertite in un movimento veramente anti-neoliberista, capace di mettere un freno e allo stesso tempo evidenziare tutta la violenza che richiede oggi l'accumulazione capitalista» ma si deve anche tener presente che «il fascismo globale è una risposta a questo» e per questo è importante convocare la «molteplicità dei femminismi». «Ci vediamo sulle strade! Vive, libere e senza debiti!».
traduzione di Gianluigi Gurgigno

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it