VISIONI

Il caso del vino avvelenato di Nabari

Maboroshi
MATTEO BOSCAROLGIAPPONE/nabari

Siamo nel marzo del 1961 a Nabari, un piccolo villaggio nella prefettura di Mie, Giappone centrale. Alla festa del paese dove tutti si stanno divertendo, viene portata una bottiglia di vino, forse per espandere ancor di più l’euforia dell’occasione. Dopo poco tempo diciassette persone però cominciano a sentirsi male: si tratta di un avvelenamento. Di queste, cinque moriranno. Nel vino vengono trovate tracce di pesticida ed il principale indiziato è Masaru Okunishi, colui che ha portato la bottiglia. Fra le persone decedute ci sono sua moglie e la sua amante e si pensa subito quindi ad un caso di vendetta passionale.

Okunishi viene prosciolto in primo grado nel 1964 ma poi condannato a morte nel 1969, sentenza confermata tre anni dopo dalla Corte Suprema. Se in un primo momento l’uomo si era dichiarato colpevole, in seguito e per tutta la sua vita nei decenni successivi ha continuato a dichiarare che la prima confessione gli era stata estorta sotto tortura, chiedendo ripetutamente un nuovo processo. Okunishi muore nel 2015 a 89 anni, dopo otto richieste di un nuovo processo mai accettate e dopo aver passato 46 anni nel braccio della morte, «un vero e proprio fallimento del sistema giudiziario giapponese» come è stato chiamato da più parti.
Nel 2013 Tatsuya Nakadai, uno dei più grandi attori giapponesi che mai abbia graziato il grande schermo, interpreta Okunishi in Yakusoku, una docufiction diretta da Jun’ichi Saito che ripercorre, anche con l’aiuto di materiale d’archivio ed interviste, le vicende dell’avvelenamento di Nabari e la lotta dell’uomo e della sua famiglia contro il sistema giudiziario giapponese, ad interpretare la madre è la da poco scomparsa Kirin Kiki. Saito fa parte del Tokai Terebi Documentarii, un gruppo di lavoro che opera specialmente nel documentario per la televisione ma con puntate di livello sul grande schermo, lavori non stilisticamente innovativi, ma che propongono di volta in volta tematiche molto scomode e qualche volta affrontano quelli che sono considerati veri e propri tabù nell’arcipelago. Perfetto esempio di quest’ultima categoria è Shikei bengonin, lavoro uscito nel 2012 che segue le lotte quotidiane di un avvocato ostracizzato da gran parte dei media in quanto accetta e difende i criminali ed i casi di cui nessuno vuole farsi carico nel Giappone contemporaneo.
É da pochi giorni nelle sale nipponiche il nuovo lavoro di Saito e del gruppo di documentaristi di cui fa parte, che ritornano ad occuparsi del caso del vino avvelenato di Nabari in Nemuru mura, Sleeping Village. Questa volta si tratta di un documentario più tradizionale che dà voce alla frustrazione dei pochi famigliari di Okunishi che ancora lottano per ottenere la verità, anche dopo la sua scomparsa.

Lo sguardo del film ritorna nel villaggio per vedere cosa è rimasto dell’incidente e di Okunishi nella memoria del luogo a così tanti anni di distanza.
Lavori che indagano ed esplorano i fallimenti del sistema giudiziario giapponese ce ne sono molti, e questa quantità riflette una sinistra situazione reale. Come non ricordare almeno la farsa quasi metafisica L’impiccagione di Nagisa Oshima del 1968. Ma è sempre il documentario che ha offerto in questi ultimissimi anni notevoli spunti di interesse. Gokutomo, Friends in Prison, diretto da Kim Sung-woong, racconta l’amicizia e la vita quotidiana di quattro uomini di terza età tutti legati da un comune denominatore, quello di essere stati accusati ed imprigionati ingiustamente e per lungo tempo per reati che non hanno commesso e, purtroppo, gli esempi di documentari di questo genere potrebbero continuare ancora a lungo.

matteo.boscarol@gmail.com

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